Dove potevano andare a farsi un bicchiere gli stranieri e i russi ai tempi dell’Urss?

Storia
VIKTORIA RJABIKOVA
I locali erano divisi. Chi veniva dall’estero aveva a disposizione speciali bar dove si pagava in valuta, proibiti ai sovietici. Ma i cittadini della patria del socialismo avevano comunque diverse alternative per passare la serata alzando il gomito

Bar per stranieri con ladri e prostitute

Alti archi con colonne di marmo, soffitti stuccati, vetrate colorate ed eleganti poltrone in pelle: ecco l’aspetto di uno dei primi bar sovietici per stranieri, all’interno del Grand Hotel “Evropa” (“Evropejvskaja gostinitsa” fino al 1991) di Leningrado (oggi, San Pietroburgo).

“Nell’hotel c’era una piccola area per il relax, un mezzanino con un pianoforte a coda che era destinato all’intrattenimento degli ospiti. Prendemmo una credenza intagliata dall’ex palazzina di caccia di Nicola II: la parte inferiore la usammo come bancone da bar, mentre le bevande le sistemammo in quella superiore”, ricorda Aleksandr Kudrjavtsev, uno dei primi barman dell’Urss.

Bar simili in hotel costosi, come il “Moskvà”, il “Berlin” (oggi “Savoy”) e il “Metropol”, iniziarono ad aprire nel 1965 per dar da bere agli stranieri che erano in visita nel Paese del socialismo vittorioso.

“Il primo giorno di apertura del bar, arriva uno svedese, il mio primo cliente, e ordina un ‘Vodkatini’. Allora, in Europa, era consuetudine abbreviare i nomi dei cocktail. E invece di ‘una Vodka con Martini’, come avremmo detto noi, o quantomeno di un ‘Vodka Martini’, quello disse proprio così”, racconta Kudrjavtsev. “Io, certo conoscevo il Martini e la vodka, ma quel ‘Vodkatini’ non mi diceva nulla. Lo svedese ha visto che ero imbarazzato e fa: ‘Sì, sai… una volta amavo il Martini secco, ma ora sono passato alla vodka’. E ho subito capito che dovevo mescolare vodka e martini. Così ho ricevuto la mia prima mancia: il primo dollaro, che poi ho appeso al muro”.

Questo tipo di bar iniziò a essere chiamato “valjutnij”, “in valuta”, poiché i clienti potevano pagare solo in valuta estera. La gran parte dei clienti erano stranieri in visita in Urss, ma, secondo Kudrjavtsev, non mancavano mai gli ufficiali del Kgb, con i quali i i barman dovevano “collaborare”.

“Per esempio, quando uno straniero era seduto da me al banco… se vedevo che il mio ospite stava per andarsene, dovevo fare un gesto convenuto all’agente in borghese che si trovava all’ingresso del bar”, racconta Kudrjavtsev.

Ai normali cittadini sovietici non era permesso avvicinarsi a tali bar e persino ai diplomatici era consigliato di non andarci: una squadra di poliziotti controllava rigorosamente l’ingresso. Tuttavia, secondo Kudrjavtsev, le prostitute sovietiche finivano “accidentalmente” al bar, e gli stranieri spesso se ne andavano con loro. Dopo il “lavoro”, le ragazze venivano fermate dalle forze dell’ordine e dovevano fare quattro chiacchiere con gli agenti.

Spesso gli stessi dipendenti dell’hotel compravano di nascosto cose importate da stranieri, ma questo accadeva fuori dal bar. Nei bar in valuta avvenivano anche furti, ha raccontato al quotidiano “Kommersant” un’impiegata di Intourist, la compagnia turistica sovietica, fondata nel 1929.

“C’è stato un caso con dei turisti, studenti di una scuola di intelligence della Germania, venuti a studiare russo. Erano costantemente perseguitati da problemi: portafogli, carte d’identità rubate o confiscate, […] il primo furto avvenne in un bar in valuta a Kiev”, ha ricordato la donna che desidera rimanere anonima.

A quanto racconta, all’arrivo a Mosca, il denaro venne loro restituito, dimostrando così quanto bene funzionasse la milizia sovietica.

Bar per sovietici con liquori e stiljagi

Il bar più amato dall’intellighenzia sovietica era la Cocktail Hall, aperta negli anni Quaranta. L’interno era davvero fantastico: una scala a chiocciola, colonne e costosi lampadari. Solo donne lavoravano al bar: preparavano punch, caffè con liquore, cocktail e bevande alcoliche con frutta.

“Ti sedevi al bancone a un tavolo alto, rotondo e girevole e sorseggiavi un punch alla ciliegia con una cannuccia; un incrocio tra acqua aromatizzata alla frutta e del vino dolce leggero, ma molto più buono di entrambi. Forse ti girava la testa, ma nessuna intossicazione”, ha ricordato Aleksandr Puzikov, caporedattore della casa editrice “Khudozhestvennaja Literatura”.

Tra i clienti c’erano diplomatici, scrittori, stiljagi, ufficiali in licenza e persino soldati, ma tutti dovevano indossare la cravatta; questa era una parte obbligatoria del dress code. Per andare al bar, molti indossavano cravatte colorate e buffe, e alcuni addirittura si allacciavano calzini con l’elastico al collo, scrive “Rossijskaja Gazeta”.

Si riteneva che la “Cocktail Hall” fosse stata creata per rintracciare spie e antisovietici.

“Ai tempi di Stalin, la Cocktail Hall esisteva per dare la caccia a tutte le persone interessate all’Occidente: identificarle lì e poi punirle da qualche altra parte. Quando invece sono iniziate le retate, dopo la morte di Stalin, questo principio è stato violato, e immediatamente tutti hanno smesso di andarci”, ha detto il jazzista Aleksej Kozlov.

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Il ristorante “Praga” nel centro di Mosca era un vero lusso, poiché lì era possibile bere la vera birra ceca, e agli amanti di qualcosa di più forte veniva servito un set di vodka, cognac e champagne, oltre a porto e altri vini, scrive “Vechernjaja Moskva”, citando l’esperto di Mosca Ilja Kuznetsov. Celebre, era anche il ristorante degli anni Trenta del XX secolo “Aragvi”, famoso per i vini georgiani e le voci su una segreta sala dei peccati, dove venivano portate le bellezze della capitale per soddisfare gli appetiti sessuali dei membri del Comitato Centrale del Pcus. Si diceva anche che dopo le bellezze scomparissero senza lasciare traccia. Ma sembra una delle tante leggende metropolitane.

A ballare a quel tempo andavano al bar “Lira”, in piazza Pushkin, con musica dal vivo. Poi, dopo aver visitato diversi locali, si finiva inevitabilmente al caffè “Shokoladnitsa”, al Gorky Park di Mosca: alle donne piaceva in particolare bere lì liquore all’albicocca e porto “72”.

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Birrerie e bettole con criminali e risse

Un normale cittadino sovietico poteva uscire a bere un drink in una rjumochnaja (una sorta di snack bar con mescita di superalcolici). Molte furono aperte soprattutto a San Pietroburgo dopo la Grande Guerra Patriottica.

«All’angolo tra via Majakovskij e via Nekrasov c’era una rjumochnaja terribile, piena di invalidi senza gambe. Un posto che sapeva di giacche lise, sfortuna, urla e risse. Le persone andavano lì per ubriacarsi deliberatamente: con tutti questi mutilati, ex ufficiali, soldati, sergenti”, ha ricordato lo scrittore Valerij Popov.

Più vicino agli anni Settanta, in Urss iniziarono ad aprire i “pivbar”, delle birrerie dove tutti potevano andare a bere. Uno dei locali principali di questo tipo era “Jama”. Lì, secondo lo stilista Vjacheslav (Slava) Zajtsev, si riunivano criminali, poeti, musicisti e normali studenti. Non c’erano sedie, tutti stavano in piedi, ma le code non mancavano mai.

“Lì tutti erano a proprio agio: si beveva birra, si mangiavano gamberi, si discuteva di diversi argomenti, compresi quelli musicali. C’era una specie di romanticismo in tutto questo: persone con i tatuaggi, ex atleti, artisti ubriachi! La saggezza popolare e le difficili biografie che potevano essere lette nei tatuaggi fatti in carcere ti rimanevano nella memoria per sempre”, ha ricordato Zajtsev.

Un’altra birreria popolare era la “Zhigulì”, dove veniva servita la birra sovietica “Zhigulevskoe” e con essa si mangiavano gamberi bolliti. Divenne quasi lo standard della birreria sovietica e poi russa, e nel 2012 persino il presidente russo Vladimir Putin è andato lì, una volta.

C’erano anche normali chioschi di birra sparsi per tutta l’Urss. “Così come per molti prodotti, c’erano le code per la birra, e chi cercava di saltare la coda veniva chiamato ‘dushman’”, ricorda Mark Gottlieb, vicedirettore del quotidiano “Novaja Sibir”. Il primo significato della parola ‘dushman’ era ‘mujaeddin’.

“Attorno a ogni chiosco di birra, diverse persone stavano sedute nella tipica posa gopnik dell’accovacciamento e sorseggiavano birra da una latta da tre litri. Le persone normali di solito cercavano di non incrociare lo sguardo con loro. Ma se si voleva risparmiare tempo e nervi, era necessario andare direttamente da questi figuri e pronunciare la cara frase: ‘Muzhikì, prenderemmo una birra’. Il costo per la ‘facilitazione’ dell’acquisto era di un rublo (per quei soldi si poteva andare al cinema 10 volte o comprare 5 pagnotte di pane, ndr). Come un rompighiaccio, questi omaccioni si facevano strada verso il chiosco, senza badare alla fila, e in men che non si dica il vostro contenitore era pieno. Spesso nella coda qualcuno reagiva a questo comportamento, e a volte la cosa si concludeva con una rissa”, ricorda Gottlieb.

L’ambita bevanda veniva versata in barattoli di vetro da 3 litri e persino in taniche da 10 litri, e alcuni bevevano birra persino dai sacchetti di plastica, dopo averci fatto un buco.

Infine, alcuni bar avevano distributori automatici di birra, chiamati popolarmente “Avtopoìlka” (“Auto-abbeveratoio”). Il principio era semplice: dovevi comprare un gettone, metterlo nella macchina, tirare la leva e aspettare che il boccale fosse pieno di birra. 

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“Tuttavia, le persone sapevano come ottenere gratuitamente l’ambita birra”, racconta Evgenij Pjatunin, uno storico locale di Kirov (città 955 km a nordest di Mosca).

“Praticavano un buco nel gettone, vi legavano un filo e insaponavano il tutto. E a quel punto la leva andava avanti e indietro. In generale, la birra scorreva come un fiume, fino a quando un ‘barista’ non se ne accorgeva e balzava fuori da dietro il bar, disperdendo gli amanti della birra ‘na khaljavu’, e requisiva il marchingegno”, ha scritto Pjatunin nel suo libro “Traktat o pive” (“Trattato sulla birra”).


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