“Il principe Serebrjanij” (in russo: “Князь Серебряный”; “Knjaz Serebrjanij”), scritto da Aleksej Konstantinovich Tolstoj (1817-1875), è un romanzo, alla Sir Walter Scott, sui tempi dello zar Ivan il Terribile (1530-1584). È incentrato sulle gesta e sulle avventure di Nikita Serebrjanyj, un immaginario principe russo circondato da personaggi reali dell’epoca, tra cui lo stesso zar Ivan, la sua fitta cerchia di feroci oprichnik e altre figure importanti.
Basato su fonti storiche e letterarie, il romanzo è elogiato per la sua elevata accuratezza storica e offre uno sguardo drammatico sull’epoca narrata. Particolarmente avvincente è l’immagine dello zar Ivan, allo stesso tempo crudele e pio.
In italiano “Il principe Serebrjanij” è stato pubblicato da Guida Editori nel 1983 (e, in precedenza, nel 1929 da Sonzogno) ed è fuori catalogo.
Questo romanzo in versi, scritto da Aleksandr Pushkin (1799-1837), è spesso chiamato “l’enciclopedia della vita russa”, e a buon diritto. L’“Eugenio Onegin” (in russo: “Евгений Онегин”; “Evgenij Onegin”) è un capolavoro di 5.446 versi che contiene una descrizione esaustiva della vita di un nobile russo degli anni Trenta dell’Ottocento, con tutti i suoi problemi, preoccupazioni e guai, dalle questioni finanziarie e civili, alla vita amorosa, alle questioni d’onore e ai conflitti esistenziali.
Il romanzo è incentrato sul percorso di vita del personaggio omonimo, che sfida il suo migliore amico a duello, contrasta cinicamente le norme della società, ma alla fine viene fermato sul suo cammino dal contraccolpo dei suoi stessi atteggiamenti.
L’intero romanzo è un racconto complicato e raffinatissimo sulla caduta di un dandy. Aleksandr Pushkin lo ha definito il suo capolavoro più importante.
In italiano l’“Eugenio Onegin” è stato pubblicato per la prima volta nel 1906, allora con il titolo di “Eugenio Anieghin” (Tip. Zammit). Nel corso del Novecento si sono esercitati sulla sua traduzione alcuni dei più grandi slavisti: Ettore Lo Gatto (in endecasillabi), Eridano Bazzarelli (in prosa), Giovanni Giudici (in versi), Pia Pera (in versi liberi). In commercio sono presenti varie edizioni, per i tipi di Bur (traduzione di Bazzarelli), Quodlibet (Lo Gatto), Marsilio (Pera). In libreria si trova anche l’edizione di Cinquemarzo tradotta da Giorgio Colavincenzo con il titolo “La primavera perduta. Libero adattamento in prosa dell’Eugenio Onegin”. Per il pubblico più specializzato e gli appassionati di critica letteraria segnaliamo “L’‘Onegin’ di Giovanni Giudici. Un’analisi metrico-variantistica” di Sara Cerneaz (Ledizioni).
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Commedia teatrale che è divertente, tragica e sagace allo stesso tempo, “L’ispettore generale” (in russo: “Ревизор”; “Revizór”) è incentrata sulla figura di Khlestakov, un piccolo impiegato statale che decide di giocare un brutto scherzo all’amministrazione di una piccola città di provincia in Russia: si atteggia a ispettore del governo, mentre in realtà è solo un imbroglione di passaggio in città.
Khlestakov è testimone di tutti i livelli di corruzione e di pura adulazione che i funzionari locali e i membri della società compiono per lusingarlo, pensando che il loro destino sia nelle sue mani. In una danza macabra di vari personaggi disgustosi e comici, l’affascinante genio di Nikolaj Gogol (1809-1852) mostra al lettore tutti i lati nascosti e sbalorditivi della vita provinciale russa del XIX secolo.
Dopo aver assistito alla première, l’imperatore Nicola I disse: “Che spettacolo! Tutti hanno avuto la loro parte [di critiche], ma io più di tutti!”. La commedia non venne proibita, ma lo zar impose che ne venisse fatta un’altra con un finale diverso e più “costruttivo” per le autorità, per oscurare l’originale.
Ovviamente, il consiglio è di andare a vedere la commedia a teatro. In ogni caso, in libreria potete trovare il testo in almeno due edizioni: Garzanti (traduzione di Cristina Moroni e Luca Doninelli) e Feltrinelli (traduzione di Serena Prina).
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“Un eroe del nostro tempo, signori miei cari, è proprio un ritratto, ma non di una persona: è un ritratto dei vizi di tutta la nostra generazione nel pieno del loro sviluppo”, ha scritto Mikhail Lermontov (1814-1841) nella prefazione a “Un eroe del nostro tempo” (in russo: “Герой нашего времени”; “Geroj nashego vremeni”).
Il romanzo è incentrato sulla figura di Pechorin, un personaggio che contraddice, ma completa l’immagine dell’Eugenio Onegin di Pushkin: anche lui è un dandy, ma oscuro, byroniano, e la storia della sua vita è tragica e contorta. La trama del romanzo non è lineare, il che aggiunge drammatismo.
Storicamente, il romanzo è una rappresentazione affascinante della vita degli ufficiali russi nel Caucaso e una storia avvincente sulle questioni dell’onore e su come venivano trattate le donne dai nobili russi. È scritto in un tono unico e senza tempo che affascina anche il lettore di oggi.
In italiano “Un eroe del nostro tempo” è stato pubblicato da varie case editrici e con diverse traduzioni: tra cui Bur (Clara Terzi Pizzorno) e Mondadori (Pia Pera). La versione più recente, di Paolo Nori, che ha cambiato il titolo in “Un eroe dei nostri tempi” è uscita prima per Feltrinelli (2007) e poi per Marcos y Marcos (2017).
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Nel 1854-1855, Lev Tolstoj (1828-1910), ufficiale dell’esercito russo, era presente all’assedio di Sebastopoli, che ebbe luogo durante la Guerra di Crimea (quando la Russia fu sconfitta da Impero ottomano, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna). Il grande scrittore sopravvisse a numerosi bombardamenti e partecipò ai combattimenti. La prima opera di grande successo di Tolstoj, “I racconti di Sebastopoli” (in russo: “Севастопольские рассказы”; “Sebastopolskie rasskazy”), non è di narrativa, ma ricorda più dei rapporti dal fronte di un corrispondente di guerra, ed è la prima opera di questo tipo nella storia russa.
Scritti con attenzione ai dettagli e senza alcun timore o rimorso, i tre racconti rendono esattamente com’era essere presenti durante uno degli assedi più drammatici nella storia dell’esercito russo, che terminò con una bruciante sconfitta. Tolstoj mostra l’orrore e il terribile spreco della guerra.
In Italiano “I racconti di Sebastopoli” sono stati tradotti più volte e pubblicati da varie case editrici. In libreria adesso l’edizione più facile da trovare (altre sono finite fuori catalogo) dovrebbe essere quella di Garzanti (traduzione di Vittorio Tomelleri). Sono anche presenti nel Meridiano Mondadori “Tutti i racconti” (Igor Sibaldi).
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Romanzo satirico davvero esilarante, “Le dodici sedie” (in russo: “Двенадцать стульев”, “Dvenadtsat stuljev”) è ambientato negli anni Venti sovietici e segue le peripezie del protagonista, il truffatore Ostap Bender, alla ricerca di alcuni gioielli nascosti al tempo della Rivoluzione in una di dodici sedie identiche, che nel frattempo sono state vendute e sono finite un po’ ovunque.
Nonostante il fatto che il romanzo sia piuttosto breve, riesce a mostrare l’universo della realtà sovietica dei primi anni con umorismo, arguzia e dettagli avvincenti. I personaggi vivono avventure in una città di provincia russa, si mescolano alla folla in un’asta di mobili a Mosca, viaggiano a bordo di una nave turistica e festeggiano al confine russo-georgiano…
Il romanzo era ed è ancora estremamente popolare tra i russi per la sua energia e lo stile di scrittura agile. Gli stessi personaggi continuano le loro imprese nel sequel del romanzo, “Il vitello d’oro” (1931).
“Le dodici sedie” fu tradotto per la prima volta in italiano da W. Citakoff, come “Le dodici seggiole”, per Longanesi nel 1950. La traduzione successiva è quella di Gigliola Venturi (da nubile Spinelli; era sorella di Altiero), realizzata nel 1969 per “La Nuova Italia” (nella collana per ragazzi; cosa che portò ad alcune piccole censure). La versione più recente è quella a cura di Anjuta Ganchikov per Bur. Il cartaceo risulta esaurito, ma, in attesa di ristampa, è possibile optare per l’ebook.
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Nel 1945, Aleksandr Solzhenitsyn (1918-2008) fu condannato per attività antisovietica e trascorse quasi otto anni tra prigioni, campi di lavoro e altre istituzioni penali. Per una parte considerevole del suo periodo di detenzione, Solzenitsyn, matematico, lavorò insieme ad altri scienziati in diverse sharashka, dei laboratori di ricerca segreti all’interno del sistema dei gulag.
Le dure esperienze che Solzenitsyn dovette sopportare durante la prigionia sono diventate la base di questo romanzo in gran parte autobiografico, “Il primo cerchio” (in russo: “В круге первом”; “V kruge pervom”), scritto in gran parte nel 1955-58, ma che in Urss sarebbe stato pubblicato solo nel 1990 (in Occidente vide la luce nel 1968). Il titolo è un richiamo dantesco, con cui l’autore ammette di aver visto solo il primo cerchio dell’“inferno sovietico” del sistema Gulag.
Solzhenitsyn ha scritto il romanzo senza alcuna speranza di pubblicazione, quindi è pieno di dettagli sulla vita reale dell’apparato di oppressione sovietico. La maggior parte dei personaggi del romanzo sono modellati su veri detenuti che Solzhenitsyn incontrò.
Copie del romanzo, distribuite attraverso canali illegali in samizdat, vennero scovate e confiscate dal Kgb. Il romanzo venne pubblicato per la prima volta per intero nel 1968 da Harper & Row, a New York.
Sempre nel 1968 “Il primo cerchio” venne pubblicato in Italia da Mondadori, nella traduzione di Pietro Zveteremich. La prima traduzione della versione integrale risale invece al 2018, ad opera di Denise Silvestri per Voland, con il titolo, più fedele all’originale, di “Nel primo cerchio”.
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Varlam Shalamov (1907-1982) ha trascorso un periodo di lavori forzati molto, molto più duro di Solzhenitsyn: ha scontato due condanne, prima nel 1929-1931 e poi nel 1936-1951. Entrambe per “attività antisovietica”. Dal 1937 al 1945, Shalamov fu imprigionato nelle condizioni più dure: nelle miniere di carbone e d’oro della regione artica della Kolymà.
I “Racconti di Kolyma” (in russo: “Колымские рассказы”; “Kolymskie rasskazy”) furono in parte pubblicati nel 1966 e nel 1967 negli Stati Uniti e in Germania e integralmente nel 1978 a Londra. Durante la vita dell’autore, nessuna delle sue pagine sul gulag è stata pubblicata in Urss. I “Racconti di Kolyma” uscirono in Unione Sovietica solo nel 1989, sette anni dopo la sua morte.
Il libro è composto da sei volumi di racconti, a volte legati tra loro dalla presenza degli stessi personaggi. In gran parte è un lavoro documentale che testimonia la realtà a cui Shalamov ha assistito, e si basa anche su storie che ha sentito.
Lo stile di Shalamov, molto frugale e preciso, è in qualche modo simile a quello di Anton Chekhov. Il tema delle storie è per lo più brutale, a volte orribile, pieno di esempi mostruosi di crudeltà e disumanità che le persone erano costrette a sperimentare nel gulag. Lascia senza fiato, ma Shalamov si trattiene dal dare giudizi, lasciandoli a chi legge.
Non è un’esagerazione affermare che senza aver letto “I racconti di Kolyma” non si sa nulla del vero orrore del gulag.
In italiano la prima edizione fu quella di Savelli del 1976-1978 (condotta sul testo dei samizdat e all’insaputa dell’autore). Le traduzioni più recenti che si possono trovare in libreria sono quella di Sergio Rapetti per Einaudi, e di Marco Binni per Adelphi (quest’ultima con il titolo “I racconti della Kolyma”.
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Uno dei pochi libri sulla realtà sovietica che è diventato ampiamente conosciuto e famoso al di fuori dell’Urss, “Mosca-Petushki” (“Москва — Петушки”) è stato etichettato dal suo autore, Venedikt Erofeev (1938-1990) come “una poesia, sebbene scritta in prosa”. Racconta la storia di un intellettuale alcolizzato che viaggia su un treno suburbano da Mosca alla cittadina di Petushkì (120 chilometri a est) per andare in visita alla sua fidanzata e al figlio.
Secondo la trama del romanzo, il protagonista è sempre ubriaco marcio: ‘Mosca-Petushki’ è la tragica storia della vita di una persona distrutta nella società disumana di uno Stato sovietico in fallimento. Affronta tutti gli aspetti della vita sovietica con umorismo amaro, franchezza impassibile e con l’atteggiamento da emarginato sociale snob e altamente istruito, come era lo stesso Erofeev.
“Mosca-Petushki” è considerato da molti il libro di testo perfetto per chi vuole imparare le parolacce russe.
In libreria potete adesso potete trovarlo nella traduzione di Paolo Nori come “Mosca-Petuškì. Poema ferroviario”, edito da Quodlibet. In passato era uscito da Feltrinelli nel 1977 come “Mosca sulla vodka” (traduzione di Pietro Zveteremich) e nel 2004 come “Mosca Petuški e altre opere” (Gario Zappi). C’è anche una traduzione di Mario Caramitti edita da Fanucci nel 2003: “Tra Mosca e Petuški”.
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Viktor Pelevin (1962-), uno dei più riservati e solitari scrittori russi moderni, ha scritto “Babylon” (in russo ha il titolo mezzo in inglese di “Generation ‘П’”; ovvero “Generazione ‘P’”) negli anni Novanta. Il romanzo parla dei russi nati negli anni Settanta, che erano già adulti al crollo dell’Urss e sono stati la prima generazione a dover affrontare in pieno la nuova durissima realtà economica e politica dei selvaggi anni Novanta.
Il protagonista, Vavilen Tatarskij, è un giovane istruito, laureato all’Istituto di Letteratura Maksim Gorkij, che nel nuovo mondo post soveitico diventa un copywriter, producendo slogan pubblicitari, e poi, un autore di programmi televisivi. Tatarskij capisce di essere uno dei manipolatori che possono far passare quasi tutto quello che vogliono nelle menti del pubblico davanti alla tv. Dopo aver afferrato quale sia il suo potere, Tatarskij inizia a cercare il vero significato della vita, solo per rendersi conto che tutto è governato dagli oscuri dei mesopotamici dell’antico passato. “Aiutato” nella sua ricerca dalle droghe psichedeliche, Tatarskij cerca di risolvere gli enigmi del consumismo intellettuale.
Si tratta di un vivace testo postmoderno che si concentra più sulla trama e che sulla qualità della scrittura in sé, per cui è leggermente diverso da un “tipico” libro russo. Ma, come ha affermato il critico letterario Pavel Basinskij, il romanzo è molto affidabile e sarà in grado, anche tra cento anni, di consentire al lettore di comprendere come era la vita dei russi negli anni Novanta.
In Italia è uscito da Mondadori nel 2000 con un titolo completamente cambiato rispetto all’originale: “Babylon”, nella traduzione di Katia Renna e Tatiana Olear. È fuori catalogo.
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