“Mosca non crede alle lacrime”: cosa significa e da dove viene la celebre espressione russa

Russia Beyond (Mordolff / Getty Images, Mosfilm)
Molti credono che risalga al film omonimo, che vinse il Premio Oscar nel 1981. Ma la frase è molto più antica e bisogna scavare fino al Medioevo e alla dominazione mongolo-tatara per capirla

“Non ci ho capito niente”, disse il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan dopo aver visto diverse volte il film di Vladimir Menshov (1939-2021) “Mosca non crede alle lacrime” (titolo originale russo: “Москва слезам не верит”; “Moskvá slezám ne vérit”; 1979). Alcune fonti sostengono che l’ex attore poi divenuto inquilino della Casa Bianca lo abbia guardato addirittura otto volte!

Lui stesso ha spiegato di averlo fatto, alla vigilia di un incontro con Mikhail Gorbachev, perché voleva capire meglio l’“enigmatica anima russa”, in un momento di miglioramento delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ma la pellicola non lo aiutò.

Alla cerimonia di chiusura del vertice di Ginevra, il leader sovietico Mikhail Gorbaciov e il presidente americano Ronald Reagan

Questo film dal titolo metaforico vinse l’Oscar come Miglior film in lingua straniera nel 1981. Per diverse generazioni di sovietici è diventato un film di culto, anche se oggi riceve qualche critica dalle femministe, e a la frase “Mosca non crede alle lacrime” è associata da tanti esclusivamente al film. Ma cosa significa e da dove viene veramente?

Tutta la verità su una città “crudele”

Nella storia, tre giovani ragazze di provincia arrivano a Mosca per iscriversi all’università. Condividono una stanza in un dormitorio studentesco e sognano di avere successo nella grande città. Nella prima delle due parti del film, la protagonista Ekaterina, spinta dalla sua compagna di stanza, finge di essere la figlia di un professore e inizia una relazione con un bel moscovita di famiglia borghese. Presto rimane incinta, l’inganno viene scoperto e lui la lascia.

La seconda parte, che si svolge vent’anni dopo, mostra che Ekaterina è diventata una donna di successo, passata da tessitrice in una fabbrica a direttrice di una grande impresa, e ha cresciuto da sola sua figlia. L’unica cosa che non ha funzionato è stata la sua vita personale, dal punto di vista delle relazioni affettive.

Questa favola sovietica ha un lieto fine. La storia di una donna che si è fatta da sola e della classe media sovietica finisce nel modo in cui è iniziata: lei incontra l’uomo dei suoi sogni.

Il film è apprezzato ancora oggi per la sua riconoscibile credibilità nel parlare della vita vera. Trasferirsi nella capitale e là riuscire a farsi strada è il sogno di molti provinciali. I metodi della “conquista” della grande metropoli rimangono gli stessi. 

“Mosca non crede alle lacrime” viene usato come espressione per dire che le lamentele e i problemi di qualcuno non suscitano alcuna empatia, e nessuno ti aiuterà a risolverli. Puoi contare solo su te stesso. L’enorme metropoli è l’esempio di questa freddezza nei confronti dei guai altrui. 

Nel dizionario di Vladimir Dahl (1801-1872) “Proverbi del popolo russo” l’espressione è annotata come proverbio, il cui significato è spiegato come “Non impietosisci nessuno. Sono tutti estranei”. Mentre nel racconto di Nikolaj Leskov (1831-1895) “La donna bellicosa” (titolo originale russo: “Воительница”; “Voítelnitsa”; 1866) c’è questo monologo della protagonista:

“Insomma, mi fa, guardate le mie lacrime. Al che amico mio, io dico: le lacrime? Le lacrime sono lacrime, e mi dispiace persino molto per te, ma Mosca non crede nelle lacrime, come dice il proverbio. Per le lacrime non ti daranno soldi”.

I balzelli dei tatari

La frase è molto più antica persino delle opere di Leskov; di circa quattro o cinque secoli.

Secondo una teoria, risale al tempo del vecchio principe russo Iván Kalitá (Ivan I di Russia), noto per le sue eccessive esazioni. Era il XIII secolo, quando il nipote di Gengis Khan, Batu Khan, sconfisse i principati russi. Era un periodo di frammentazione feudale in Russia, senza un unico governo centrale: i principati, isolati l’uno dall’altro, competevano per il territorio e l’influenza. Sotto il giogo dell’Orda d’oro, alcuni principati combatterono gli invasori e si indebolirono, mentre altri cercarono di raggiungere un accordo economico per mettersi al riparo dalle incursioni più distruttive e sanguinose.

Riproduzione della miniatura

Il principe Ivan Kalita di Mosca era un sostenitore dei negoziati con l’Orda. Raggiungendo un accordo con il Khan, raccolse per lui quanti più tributi possibili dai principi russi, che in cambio venivano risparmiati dalle spedizioni punitive. Secondo i cronisti, il nuovo sistema di relazioni tra la Russia e l’Orda ebbe suoi meriti: le distruttive incursioni tatare cessarono per 40 anni. Durante questo tempo di pace, i principati si ricostruirono e si rafforzarono e in seguito furono in grado di respingere i tatari. 

Per tutto questo tempo, però, i principi furono portati alla disperazione dai pagamenti dei tributi. Non si sa precisamente a quanto ammontassero, ma gli storici ritengono che fossero paragonabili al bilancio di un piccolo Stato. A volte, per raccogliere una somma così grande, i principi dovevano prendere in prestito denaro da mercanti, anche stranieri. A volte non potevano restituire il denaro entro la morte, e il debito passava agli eredi. Fu soprannominato “beserménskij dolg” (“бесерменский долг”; “il debito coi besermen). I russi allora chiamavano “besermen” tutti i musulmani.

Sergej Ivanov. Baskaki, 1909

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Kalita, avendo ricevuto un enorme strumento di influenza sugli altri principi, oltre al già alto tributo chiese del denaro extra per le necessità del principato di Mosca. Tra la popolazione questo causò malcontento: ora pure il principe di Mosca bisognava pagare? Perciò cominciarono ad arrivare a Mosca quelli che allora erano detti chelobítchiki. Erano sostanzialmente dei petitori, che, con le loro suppliche lacrimose chiedevano a Kalita di ridurre la misura delle tasse. Ma Kalita fu sempre irremovibile. Non solo, ma ebbe la mano dura sia con i disordini che di tanto in tanto scoppiavano in qualche principato, sia con questi latori di petizioni, spesso messi alla gogna. Da qui l’espressione: “Mosca non crede alle lacrime”.

Ivan I regnò fino al 1340 e durante il suo regno accumulò enormi ricchezze, che spese per l’acquisto di nuove terre. A proposito, il soprannome “Kalitá”, con cui è passato alla storia, significava in russo antico “borsellino per i soldi”.

L’espansionismo di Mosca 

La seconda teoria sull’origine dell’espressione si riferisce già al tempo successivo al giogo tataro-mongolo, al XV secolo, ai tempi dello zar Ivan III, detto il Grande. Il soprannome era ben meritato: il suo principale risultato fu la liberazione finale della Russia dalla dominazione dell’Orda nel 1480.

Sotto Ivan III arrivò la fine della frammentazione e la Russia divenne un unico Stato. Il territorio del Paese crebbe di 6 volte, diventando più grande di qualsiasi Stato in Europa. Lo zar ottenne i diritti di proprietà delle terre, annettendole a Mosca pagando o conquistandole. E la principale acquisizione territoriale di Mosca nella seconda metà del XV secolo fu la Repubblica di Novgorod. La terra scarsamente popolata di Novgorod, con le sue ricchezze naturali e l’accesso al mare, perse ogni indipendenza dopo la sua conquista e fu da allora in poi governata da Mosca.

Fu probabilmente in quel periodo che si diffuse espressione (più lunga e di quanto sia giunta fino ad oggi): “Mosca butta giù il piede e Mosca non si abbandona alle lacrime” (“Москва бьет с носка и Москва слезам не потакает”.). Con “butta giù il piede” si intendeva una tecnica di combattimento in cui il piede dell’avversario veniva calciato in modo da fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere all’indietro.


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