Cosa hanno fatto tre grandi russi in tempi di quarantena o di isolamento forzato?

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Pushkin per una epidemia di colera, Lenin e Brodsky, invece, perché messi al confino, furono costretti a passare del tempo lontano da tutto e da tutti (o quasi). E questi periodi senza vita sociale si rivelarono per loro molto produttivi

Aleksandr Pushkin a Boldino: il periodo più produttivo

Il 3 settembre 1830, Aleksandr Pushkin (1799-1837) arrivò alla tenuta di famiglia di Bolshóe Bóldino, nella regione di Nizhnij Novgorod, circa 600 chilometri a est di Mosca. Voleva sistemarsi nel villaggio di Kistenjóvo, nel possedimento che suo padre gli aveva regalato in vista del suo matrimonio. Nel maggio del 1830, Aleksandr Pushkin e Natalja Goncharova avevano annunciato il loro fidanzamento ufficiale, tuttavia le nozze furono rinviate per tutta l’estate e ora un’altra spiacevole circostanza arrivò a mettere il bastone tra le ruote: una quarantena a causa dell’epidemia di colera scoppiata in Russia. Il 30 settembre, Pushkin scrisse alla Goncharova: “Mi hanno notificato che da qui a Mosca ci sono cinque luoghi di quarantena, e in ognuno dovrei trascorrere quattordici giorni; fate bene il conto, e immaginate come io sia del peggiore degli umori!”

Le quarantene, istituite per ordine del ministro degli Affari Interni, il conte Zakrevskij, paralizzarono il commercio e, in generale, tutti i movimenti all’interno della Russia. Un anno dopo, Pushkin scrisse a tale proposito: “Le quarantene hanno bloccato ogni settore produttivo, fermato ogni mezzo di trasporto, ridotto in povertà gli appaltatori e i vetturini, privato di reddito i contadini e i proprietari terrieri e portato quasi alla ribellione di 16 province”. Sebbene Pushkin, in quanto nobile, fosse obbligato (secondo l’ordine di Zakrevskij sulle misure da prendere contro l’epidemia di colera) ad accettare le disposizioni e ad aiutare la nobiltà locale nella lotta contro la malattia, facendo anche propaganda con i contadini delle misure di igiene pubblico, lui si rifiutò categoricamente. E anzi, nell’ottobre del 1830, quando venne a sapere che il colera aveva raggiunto Mosca, cercò di aggirare i blocchi e di irrompere nella capitale per raggiungere la promessa sposa, ma quando venne a sapere che la Goncharova era già stata evacuata dalla città, girò i tacchi e tornò di nuovo a Boldino.

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Pushkin tuttavia riuscì ad apprezzare i benefici dell’isolamento. “Che fascino questo villaggio! Immagina: steppa e steppa; qua vicino neanche un’anima; cavalchi quanto vuoi, scrivi a casa quanto ti pare, e nessuno interferisce”, scrisse al suo amico Pjotr Pletnjov. L’isolamento forzato influenzò l’aspetto esteriore e la routine del poeta. Scrisse alla promessa sposa: “Mi sono lasciato crescere la barba; sono tutto barba e baffi. Bravo! Ora vado fuori e mi chiamano ‘zio’. Mi sveglio alle sette, bevo il caffè e sto a letto fino alle tre. Recentemente ho cominciato a scrivere e ho già scritto un sacco. Alle tre mi metto a cavallo, alle cinque sono in vasca da bagno e poi pranzo con patate e kasha di grano saraceno. Fino alle nove, leggo.”

Il periodo di quarantena divenne forse il più fruttuoso nell’attività letteraria di Pushkin. Completò l’ottavo e il nono capitolo dell’“Eugenio Onegin”, presentando nel capitolo finale una retrospettiva del suo lavoro; scrisse “I racconti di Belkin”, per i quali trasse in gran parte ispirazione  dall’osservazione della vita dei contadini. Compose “piccole tragedie” e scrisse molte poesie liriche. Questo periodo della sua produzione artistica è passato alla storia come “Boldinskaja osen”; l’“Autunno di Boldino”; un’espressione che è diventata familiare in russo.

Pushkin, inoltre, dal pulpito della chiesa locale, tenne una “conferenza” per i contadini della sua tenuta sul colera, come testimoniò il suo contemporaneo Pjotr Boborykin, con questi esatti contenuti: “E il colera vi è stato inviato, fratelli, perché non pagate i tributi in natura dovuti, e vi ubriacate. E se continuerete allo stesso modo, sarete frustati. Amen!”. Questo, a quanto pare, fu l’unica cosa che il poeta accettò di fare “per la società” quando il ministro Zakrevskij gli inviò personalmente l’ordine di fare un intervento pubblico per spiegare la situazione sanitaria. Pushkin tornò a Mosca solo il 5 dicembre, quando si placò l’epidemia di colera e le quarantine furono revocate.

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Lenin a Shushenskoe: il confino come una luna di miele

Gli storici sovietici descrissero la permanenza di Lenin (1870-1924) a Shùshenskoe, 4.400 chilometri a est di Mosca, come una terribile deportazione. In realtà se la passò piuttosto bene.

Nel 1895, il venticinquenne Vladimir Ilich Uljanov era già un famoso rivoluzionario, autore di una propria dottrina di orientamento marxista. Aveva creato e si era messo a capo dell’“Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia”, un’organizzazione politica che faceva  propaganda rivoluzionaria. Ma dopo appena un mese, i suoi membri principali, tra cui Lenin, furono arrestati. Lenin trascorse più di un anno in prigione durante il processo, e nel 1897 fu esiliato per tre anni nel villaggio di Shushenskoe, in Siberia, vicino a Minusinsk, ora nel Territorio di Krasnojarsk.

A Shushenskoe, Lenin si stabilì in una stanza di 14 metri nella casa del prospero contadino Zyrjanov, proprietario di tutti i bar del villaggio. Lenin aveva lo status di confinato e non aveva diritto a lavorare; lo Stato gli pagava un assegno di 8 rubli e 17 copeche al mese. Come scrisse Nadezhda Krupskaja, che raggiunse Lenin nel suo luogo di confino, con questo denaro il rivoluzionario poteva pagarsi “una stanza pulita, da mangiare, e una donna che gli lavasse e rammendasse biancheria e vestiti, anche se lui riteneva di pagare troppo”. Il cibo, secondo la Krupskaja, era “rustico”: una donna nel cortile di casa,“in una mangiatoia dove preparavano cibo per il bestiame, tagliava la carne acquistata, facendone poi polpette per l’intera settimana”.

Due volte al giorno, un ufficiale di polizia veniva a controllare Lenin; ma presto concordarono che il proprietario della casa, Zyrjanov, avrebbe “tenuto sotto controllo” il rivoluzionario, e in effetti, il controllo poliziesco fu rimosso. Presto iniziarono a concedere a Lenin persino di andare a caccia. In una lettera a sua madre, Vladimir Ilich racconta come in queste regioni montuose si potesse sparare a capre selvatiche, scoiattoli, zibellini, orsi e cervi. È chiaro che Lenin per andare a caccia aveva un fucile. Nel 1899, acquistò e ricevette con un corriere da Mosca un nuovo fucile della rinomata marca Auguste Francotte.

Nel luglio 1898, Lenin si sposò con Nadezhda Krupskaja, che era stata anche lei condannata all’esilio nel processo contro l’“Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia”; ma dovette aspettare il permesso di poter passare il suo esilio a Shushenskoe con il suo uomo. Quindi la punizione si trasformò in una sorta di luna di miele. Anche la Krupskaja riceveva il sussidio, e quindi per due persone il pane in tavola non mancava, e inoltre la madre della Krupskaja li aiutava con i soldi. I coniugi avevano dunque l’opportunità di vivere piuttosto bene. Assunsero una contadinella di 13 anni come domestica. Ricevevano libri dalle capitali. Krupskaja scrisse alla madre e alle sorelle di Lenin: “Non sono ancora abituata all’attuale aspetto sano di Volodja. A San Pietroburgo ero abituata a vederlo sempre in uno stato piuttosto malaticcio.”

Bisogna ammettere che in esilio, Lenin, lavorò anche parecchio. Qui scrisse “Lo sviluppo del capitalismo in Russia” (per il quale al suo ritorno nella capitale ricevette ben 120 rubli) e altre 30 lavori. Per tutto il tempo in cui Lenin fu al confino, tenne una fitta corrispondenza con altri rivoluzionari. Ovviamente le lettere non venivano spedite tramite la posta, dove sarebbero state lette dalla polizia segreta, ma partivano e arrivavano grazie a una fitta rete di contatti degli allora socialdemocratici.

I contatti di Lenin e della Krupskaja con la popolazione locale erano invece rari. È noto che la Krupskaja avesse portato i pattini a Lenin, e lei stessa scrisse alla suocera che lui “aveva insegnato questa singolare attività a tutti i bambini del posto, organizzando una vera e propria pista di pattinaggio sul fiume Shush”, piccolo affluente dello Enisej che attraversa il villaggio. Verso la fine dell’esilio, Lenin godeva già di una tale libertà che lui e la Krupskaja festeggiarono il capodanno 1899 a Minusinsk nell’appartamento di un altro rivoluzionario in esilio, Gleb Krzhizhanovskij. La festa fu grande, con almeno 16 partecipanti. “Ci siamo divertiti alla grande a lungo. Tutti sono rimasti a bocca aperta per il nostro sano aspetto da campagnoli”, scrisse la Krupskaja. Lenin e la moglie vissero a Shushenskoe un altro anno e già nel 1900 tornarono nelle province centrali della Russia e, dopo essersi rimessi forza, ripresero la loro attività rivoluzionaria.

Joseph Brodsky a Norinskaja: “Mi rifiuto di drammatizzare le cose”

Il 13 marzo 1964, il poeta Joseph Brodsky, accusato di parassitismo sociale, fu condannato a 5 anni di reclusione “con lavoro obbligatorio” e inviato nella regione di Arkhangelsk, dove il 10 aprile fu assegnato al villaggio di Nórinskaja (o Nórenskaja), 730 chilometri a nord di Mosca, per lavorare nel sovkhoz “Danilovskij”. Fu Brodsky stesso a scegliere la meta, tra quelle che gli furono proposte: gli piaceva il nome del villaggio, che gli ricordava il cognome della moglie del suo migliore amico, Evgenij Rein: Norinskaja.

Quello a Brodsky fu un processo esemplare. Ovviamente, lui non era l’unico in quel periodo in Unione Sovietica a non avere un lavoro (il che era reato); ma le autorità non erano con tutti così solerti; lui era evidentemente considerato ideologicamente pericoloso. Brodsky non predicava idee antisovietiche. Era peggio ancora: lui viveva, scriveva, comunicava come se l’Urss non esistesse affatto. Pertanto, grazie al lavoro del dipartimento di Leningrado del Kgb, Brodsky venne “isolato” dalla sua cerchia di contatti.

Una volta deportato, Brodsky visse in una stanza per tre mesi, poi si trasferì in una casa a sé: l’isba di un uomo del posto: Konstantin Pesterev. Tra i compiti del poeta, nell’azienda agricola statale a cui era stato assegnato, c’erano la preparazione di concimi, la pulizia dei campi di semina da pietre e radici, la preparazione di pali per gli steccati, la semina di colture invernali, la spedizione di grano e molto altro. In precedenza, l’allora ventiquattrenne Brodsky aveva dovuto lavorare in una fabbrica e partecipare a una spedizione geologica, ma con il lavoro agricolo era davvero in difficoltà: non riusciva proprio a tenere il passo con i contadini del villaggio. Persino il pascolo dei vitelli non era un compito alla sua altezza: il bestiame scappava, come se capisse che aveva a che fare con un cittadino imbranato. Successivamente, riuscì a farsi prendere come fotografo in uno stabilimento di Konosha, la cittadina più vicina. Brodsky aveva imparato le tecniche della fotografia da suo padre, un fotoreporter militare. Per lavorare a Konosha, Brodsky andava e veniva dal villaggio in bicicletta, un mezzo che gli avevano inviato i suoi amici da Leningrado. In generale, i pacchi di amici e familiari, con denaro, generi alimentari, libri furono un serio aiuto e sostegno per il poeta. Più volte, durante il confino, Brodsky fu poi autorizzato a brevi viaggi a Leningrado.

Le sue condizioni di vita nel villaggio erano, paradossalmente, migliori di quelle a casa sua a Leningrado, dove era costretto a dividere con i genitori la “stanza e mezzo” di un appartamento comune, una kommunalka. Avendo molto tempo da stare da solo con se stesso, al confino scrisse molto: più di 150 poesie, tra cui la serie “Nuove stanze per Augusta”, dedicata alla sua amata Marina Basmanova. La loro relazione era finita poco prima del processo a Brodsky, e lui tentò persino il suicidio. La Basmanova comunque andò a trovarlo in esilio, e durante una delle sue visite a Leningrado, lui provò persino a partire per Mosca per andarla a trovare, ma fu fermato giusto in tempo dagli amici: questo avrebbe portato a una sentenza più dura.

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In un’intervista del 1982, Joseph Brodsky parlò del periodo al confino: “Fu un periodo molto fruttuoso. Ho scritto molto in quei giorni. Ci sono versi che ricordo come una sorta breccia poetica.” Nelle conversazioni con Solomon Volkov, ha definito i 18 mesi trascorsi a Norinskaja “uno tra i periodi migliori, se non il migliore della mia vita”. Durante tutto il tempo del confino di Brodsky, varie figure culturali, sovietiche e straniere, scrissero lettere e parlarono in sua difesa; ma decisivo fu l’avvertimento al governo sovietico di Jean-Paul Sartre, che mise in guardia dai possibili danni d’immagine per il Paese al prossimo Forum europeo degli scrittori.

Nel settembre del 1965, la durata della pena fu ridotta, e Brodsky tornò a Leningrado. Contrariamente all’immagine dell’“eroe esiliato” o della vittima del regime sovietico, che gli era stata cucita addosso da amici e stampa estera, Joseph disse: “Sono stato fortunato… ad altre persone… è toccato qualcosa di molto più duro che a me”. Anche molti anni dopo, già in Occidente (fu costretto a emigrare nel 1972), ricordando quel periodo, Brodsky disse: “Niente di poi così interessante… mi rifiuto di drammatizzare quell’esperienza”.


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