“Per me viaggiare è un atto sacrale. Mistico. È uno stancare il corpo. Uno sfiancare i muscoli. Un disintegrare la mente. In cambio se ne può avere una rinascita. In cambio tu puoi diventare quasi un altro. Un trasformato. Un nuovo Tiziano. Questo io cerco dal viaggiare, nient’altro che questo”. Ed è per l’appunto una rinascita - una fuga e una rinascita - quella che Tiziano Bisi racconta nel suo libro d’esordio “Dalla via Emilia a San Pietroburgo”, da poco in libreria (Quodlibet, pp. 384, 18 euro). Un libro che è più di un romanzo di viaggio: è un viaggio dentro e fuori di sé, alla ricerca di ciò che fa sentire vivi.
Tiziano parte dall’autostazione di Bologna in un giorno come tanti, per gli altri, ma non per lui: sta per imbarcarsi in un viaggio solo andata, in corriera, insieme a gruppi di badanti e “umanità in fuga” che lo guardano con sguardo interrogativo: cosa ci fa quell’italiano in un autobus diretto a Est? Passano le ore, la corriera macina chilometri, e il suo tragitto tocca Vienna, Varsavia, Riga. Fino ad arrivare a San Pietroburgo.
Alla periferia di San Pietroburgo lo sguardo si posa sulle foreste di betulle, sulle paludi e gli acquitrini, che prima dell’arrivo di Pietro il Grande erano ben più estesi. È l’inizio di una grande avventura. È l’inizio della sua nuova vita.
Lì il protagonista si tuffa nella vita locale: visita luoghi leggendari dove vissero zar, scrittori e poeti; frequenta bar fumosi e malfamati; conosce la vita nelle kommunalki, la “gente ingrugnita”, gli stereotipi sugli italiani, ai quali non nasconde il suo disprezzo... Si lancia sulle tracce di Pushkin, di Stalin, di Dostoevskij e di Rasputin, e osserva con curiosità il fascino di quella città meravigliosa costruita in passato dai suoi connazionali.
A San Pietroburgo Tiziano Bisi si fermerà a lungo, lavorando come insegnante alla Facoltà di Filologia dell’Università Statale e come consulente commerciale. San Pietroburgo è, a sorpresa, la città dove finalmente il suo cuore errante trova pace: “Perché ovunque mi trovi nel mondo, trascorrono pochi giorni e subito mi affligge una brutta melanconia. Una strana scontentezza. Che non può trovare appagamento. Se non smarrendomi da una qualche parte. Se non scappando da ogni posto. Se non partendo per il lontano. ‘Non importa dove! Non importa dove! Purché sia fuori da questo mondo’, scriveva Baudelaire. Perché questo mi accade in ogni luogo del pianeta. Tranne che a San Pietroburgo”. E allora via a camminare, a perdersi, a vagabondare in una città che la si può “capire solo nei mesi invernali”, quando i turisti si diradano e i flash delle macchine fotografiche si spengono. Ride della bruttezza dei turisti che “non vengono per vedere la città così com’è, bensì per avere una conferma di quello che ripetono gli inserti in carta pregevole dei rotocalchi, gli imbonitori delle agenzie di viaggio, i refrain sempre gli stessi dei tour operator europei”. Quel suo sguardo cinico e arrabbiato sul mondo si intenerisce però davanti alla maestosità del fiume Neva che “accarezza la Fortezza di Pietro e Paolo”, o alla vista dell’oro di Sant’Isacco che luccica sopra i tetti.
Il viaggio di Tiziano prosegue dentro e fuori di sé, tra bus, treni e marshrutke, sulle quali non si sale ma “ci si salta sopra”. Quel suo girovagare lo condurrà fino alla Carelia, a Murmansk, a Teriberka, “l’ultimo avamposto della civiltà cosiddetta umana”; su e giù da treni e bus, respirando l’aria del Mar Bianco e del Mare di Barents. E poi di nuovo via, a ritroso, in cerca di risposte e di vita, in un viaggio di ritorno che lo condurrà nuovamente in Italia. Ma il sentore di una nuova ripartenza è sempre dietro l’angolo… con un’unica, solida certezza: quando arriva il momento di rimettersi in viaggio, è meglio scegliere la strada meno battuta.
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