Perché il vero rock russo nasce e fiorisce sugli Urali?

Cultura
ANNA SOROKINA
Negli anni Ottanta, a Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg) nacque la scena rock sovietica. Ai nostri giorni, in centro città le nuove generazioni suonano nel bunker che fu del maresciallo Zhukov

Nel centro di Ekaterinburg, sulla via Clara Zetkin, dietro una pesante porta di ferro ha sede una delle leggende cittadine: il bunker del maresciallo Georgij Zhukov. Di solito, di questi vecchi rifugi antiaerei fanno musei; questo è stato invece trasformato in uno studio di registrazione. A dirigerlo c’è una figura non meno leggendaria qui sugli Urali: Aleksandr Pantykin, classe 1958, che qui chiamano il “nonno” del rock di Sverdlovsk (Sverdlovsk è il nome che la città ha avuto dal 1924 al 1991, e che ancora oggi porta la regione circostante).

Alla profondità di 25 metri, niente disturba il processo creativo, così come il suono degli strumenti non dà noia ai vicini. “Quando lo studio era in un appartamento, ci denunciavano continuamente alla polizia, perché il rumore è continuo e fortissimo”, racconta Pantykin. “Per cui ci siamo messi a cercare una sede adatta e, dieci anni fa, abbiamo trovato questo bunker”.

“Qui possiamo sopravvivere persino a un attacco nucleare. Tutti moriranno, ma il rock degli Urali resterà”, scherza (o forse no) il musicista.

Ai rocker i locali del bunker sono stati concessi in utilizzo gratuito e loro ci hanno organizzato una sala prove, uno studio di registrazione e uno di montaggio video, e anche un ufficio, le cui pareti sono ornate dai premi conseguiti in vari campi artistici. C’è sia un Premio Nika (per il cinema) che una Maschera d’Oro (per il teatro) per delle colonne sonore, e ci sono riconoscimenti per il contributo allo sviluppo della musica rock, e quello del “nonno” è in effetti un contributo molto considerevole.

Negli anni Ottanta, Pantykin era il leader del gruppo cult “Urfin Jus” (prendeva il nome dal personaggio di un libro per l’infanzia di Aleksandr Volkov), fondato nel 1980, con il quale di fatto ebbe inizio la storia del movimento rock degli Urali.

Dall’ideologia allo show business

Al tempi dell’Unione Sovietica, la città industriale di Sverdlovsk (oggi, Ekaterinburg) era una delle capitali del rock, insieme a Mosca e Leningrado (oggi, San Pietroburgo). Qui apparvero sulla scena gruppi leggendari, come i “Nautilus Pompilius”, attivi dal 1982, “Chaif” (dal 1985), “Smyslovye Gallyutsinatsii” (dal 1989). Tutte queste band facevano parte del locale rock club, ai cui membri era consentito dalle autorità utilizzare le sale prove della Casa della Cultura, e che potevano ricevere aiuti economici per le scenografie e i costumi e persino per la registrazione degli album.

Come ricorda Pantykin, gli “Urfin Jus” ricevettero per un album 5 mila rubli dell’epoca, una cifra per quei tempi colossale, con la quale si poteva comprare un’auto di lusso “Volga”. In generale, i rock club vennero organizzati per interrompere l’attività musicale illegale. Negli anni Settanta e Ottanta in Unione Sovietica, sotto l’influenza della musica occidentale, apparvero numerosissimi gruppi semiclandestini, che davano concerti nei cosiddetti kvartirnik, ossia a casa di amici e conoscenti. Allora i dirigenti del Partito comunista decisero che se quest’onda non si poteva fermare, bisognava almeno governarla. Furono così fondati dei rock club ufficiali di Stato: quello di Leningrado, del quale facevano parte gruppi come “Zoopark”, “Sekret”, “Kinò”, quello di Mosca con, tra le altre, le band “Mashina Vremeni”, “Bravo” e "Brigada S”, e quello, appunto, di Sverdlovsk.

Ed ecco il paradosso: quando il rock diventa ufficiale, Boris Grebenshchikov del gruppo Akvarium (formatosi a Leningrado nel 1972) scrive la sua famosa canzone del 1983 “Rok-n-roll mjortv” (“Il rock ‘n’ roll è morto”), sostenendo che il genere si è esaurito. Questa canzone, tra l’altro, è anche conosciuta nella traduzione inglese di Joanna Stingray, una grande fan del rock sovietico, che si era sposata con il chitarrista dei “Kino” Jurij Kasparjan. È grazie a lei, produttrice, che nel 1986 pubblicò l’album “Red Wave” (“Onda Rossa”), se le registrazioni dei musicisti russi, e i nomi di Viktor Tsoj e Boris Grebenshchikov divennero noti al pubblico straniero, in particolare negli Stati Uniti. Tuttavia, l’Unione Sovietica presto crollò, e il rock da musica di protesta si trasformò in show business. Eppure, molti artisti di quei tempi sono popolari ancora oggi, anche tra i giovani.

Alain Delon e il misticismo del rock degli Urali

“A me è sempre piaciuto soprattutto il rock club di Sverdlovsk. Se quello di Mosca era caratterizzato da un rock ‘n’ roll un po’ allegrotto e quello di San Pietroburgo era melanconico e disperato, la musica degli Urali aveva un suo misticismo, che non poteva non attirare”, racconta la moscovita Daria Sokolova, che è venuta nella Regione di Sverdlovsk in “pellegrinaggio” nella patria del suo gruppo rock preferito, gli “Agatha Christie” e per visitare il Museo del rock. “Per esempio, il gruppo Nautilus Pompilius ha una celebre canzone (del 1988, ndr) che dice ‘Alain Delon non beve acqua di colonia’, ma  rendetevi conto di dov’è Alain Delon e dov’è Ekaterinburg!”.

“Sugli Urali c’è effettivamente un’atmosfera speciale”, dice Pantykin. Questa è la patria di molte persone che hanno influito pesantemente sul corso della storia russa: il maresciallo Zhukov, il presidente Eltsin, il regista Balabanov. E qui vivono molti giovani musicisti di talento, sebbene quello che suonano sia spesso roba da autodidatti e non di livello professionale, perché pagano la mancanza di una seria educazione musicale”.

Il “nonno” del rock degli Urali ricorda come in passato lo Stato sostenesse economicamente i giovani che volevano fare musica, mentre ora arrivare ad alto livello è molto più complicato se non si viene da una famiglia ricca. Ma Ekaterinburg si ritiene non a caso la capitale musicale della Russia: proprio qui si tiene uno dei più grandi festival rock del Paese, sul palco del quale sognano di potersi esibire tutti i giovani artisti.

Girotondi con l’accetta

Il musicista Evgenij Gorenburg organizza il festival “Staryj novyj rok” (“Vecchio nuovo rock”) ogni anno il 13 gennaio, quando in Russia si festeggia lo “Staryj novyj god” (“Vecchio nuovo anno”), ossia il Capodanno secondo l’antico calendario giuliano, abbandonato dalla Russia solo nel 1918. Tra centinaia di artisti ne vengono scelti qualche decina: la selezione viene fatta da una giuria di esperti, della quale fanno parte dei titani del rock di Sverdlovsk del calibro di Vladimir Shakhrin (gruppo “Chaif”), Aleksej Khomenko (“Nautilus Pompilius”) e Aleksandr Pantykin.

Negli ultimi anni, il festival si tiene all’interno del nuovo Centro Eltsin, un museo dedicato al crollo dell’Urss e ai primi anni di storia della nuova Russia indipendente. Qui si possono vedere scaffali dei negozi vuoti (simbolo della penuria alimentare di quei tempo) sullo sfondo di un grande quadro di Erik Bulatov con la scritta “Svoboda” (“Libertà”). Forse proprio questo spirito di libertà è la forza centripeta che attira qui musicisti dagli angoli più lontani del Paese. Ma i nuovi rocker sono diversi da quelli di un tempo? Certamente sì.

Prendiamo per esempio i “Neuromonakh Feofan” di San Pietroburgo. Invece di spaccare la chitarra elettrica sul palco, come si sarebbe fatto un tempo, chiedono al pubblico di ballare sulle note di un drum’n’base popolare della tradizione russa e antico slava. Oppure il quartetto di Perm degli “Avangard Leontev”, che infiamma il pubblico trasformando i suoi concerti in degli spettacoli teatrali. Gli amanti del genere classico dicono che questo non è più rock. Ma agli spettatori contemporanei questi gruppi piacciono: in tanti vengono a Ekaterinburg e ballano facendo girotondi con le accette (non vere) ascoltando i “Neuromonakh Feofan” o ballano mosh ai concerti degli “Avangard Leontev”. Intanto, gli altri rocker continuano a provare i nuovi pezzi nel bunker di via Clara Zetkin, dove sono pronti a fare musica di fronte a qualsiasi calamità.

 

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