La copertina della rivista "Krokodil"
Dominio pubblicoLa propaganda atea e antireligiosa fu uno degli elementi chiave del lavoro dei bolscevichi per creare l’uomo nuovo sovietico. L’ideologo della Rivoluzione, Lenin, fece della frase di Karl Marx “La religione è l’oppio dei popoli” un vero e proprio slogan. Lui e i suoi collaboratori ritenevano che, una volta che l’uomo si fosse persuaso dell’inesistenza di Dio, avrebbe capito che la propria vita e quella del suo popolo dipendevano esclusivamente dai suoi sforzi. Il loro calcolo era in parte corretto, visto che la Chiesa ortodossa russa (l’organizzazione religiosa più influente nel Paese) alla fine del XIX secolo era in gran parte un ostacolo allo sviluppo sociale. Il clero aveva assunto una posizione protettiva nei confronti dello Stato zarista, mantenendo le masse popolari nell’ignoranza, prive di diritti e in condizioni di indigenza, il che contribuì al collasso dell’Impero, alla Guerra civile e alla perdita di molti milioni di vite.
Soldati dell'Armata Rossa trasportano oggetti di chiesa fuori dal monastero di Simonov a Mosca, 1923
SputnikI bolscevichi realizzarono molti manifesti di propaganda che raffiguravano in modo caricaturale il clero, con figure grasse e disgustose, in tonaca e con la barba, che “drogavano" il popolo con il loro “oppio”. Molte chiese e luoghi di culto furono chiusi e convertiti ad usi civili. Inoltre, dalle chiese venivano sottratti gli oggetti di valore, tra cui gli oggetti sacri di metallo prezioso, per le “necessità degli affamati”, mentre e le campane venivano fuse per farne armi e munizioni.
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"Per avere di più, è necessario produrre di più. Per produrre di più, è necessario conoscere di più"
Dominio pubblicoPrima della Rivoluzione, secondo varie stime, appena il 20% della popolazione russa sapeva leggere e scrivere. Ma la nuova classe dirigente – gli operai e i contadini – aveva bisogno di essere alfabetizzata e istruita per partecipare alla vita pubblica e per aumentare la produttività. Per questo, una delle prime e più massicce campagne dei bolscevichi fu quella di eliminare l’analfabetismo e promuovere l’istruzione.
Lezioni per eliminare l'analfabetismo a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo), 1920
Arkadij Shishkin/MAMM/MDFNel 1919 fu emanato un decreto che obbligava tutta la popolazione dagli 8 ai 50 anni a imparare a leggere e scrivere in russo o nella propria lingua madre, a scelta. Per facilitare l’apprendimento, i bolscevichi riformarono anche l’ortografia e iniziò anche il passaggio dall’alfabeto cirillico al latino, in seguito bloccato da Stalin. In 10 anni si insegnò a leggere e scrivere a circa 10 milioni di persone; il censimento del 1926 mostrò che circa il 50% degli abitanti delle campagne era alfabetizzato, e nel 1939 ormai quasi il 90% di tutti gli abitanti lo era.
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"In un collettivo, è tutto per uno e uno per tutti"
Dominio pubblicoIl governo sovietico mirava a una società più egualitaria: una società in cui non ci fossero più pochi benestanti e tanti poveri, e in cui la ricchezza fosse ridistribuita. Negava il principio dell’arricchimento personale e la proprietà privata, che erano i motori del capitalismo. Inoltre, a livello ideologico, si disapprovava il fatto di godere di qualche bene o ricchezza se c’era qualcuno vicino a te che non la possedeva. Bisognava condividere tutto ciò che si aveva con gli altri. E idealmente, bisognava dare anche più di quanto si usava per se stessi.
Qui si applicava un’altra delle massime di Karl Marx: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Non ci devono essere ricchi e poveri, ma tutti devono avere quasi lo stesso reddito, tutti devono lavorare per gli altri, e il risultato complessivo deve essere condiviso (qualcosa di simile esiste nei Paesi scandinavi, che, con la forte tradizione socialdemocratica, sono profondamente impregnati dei migliori principi che si sono visti in azione anche in Unione Sovietica).
Un operaio mostra ai colleghi il funzionamento di un tornio, 1952
Ilya Arons/SputnikSecondo la morale sovietica, una persona dovrebbe lavorare non per l’arricchimento personale e per qualche guadagno materiale, ma per il bene della causa collettiva e con la consapevolezza del bene comune. Il piacere non deve venire dal consumo di beni materiali (il tipo di motore di sviluppo adottato nella società capitalista dei consumi), ma dal lavoro e dall’autorealizzazione nella società (in sostanza, una definizione di obiettivi molto ragionevole, in linea con la famosa piramide di valori di Abraham Maslow).
L’Urss credeva che ogni persona dovesse lavorare e non vivere di rendita, grazie all’affitto di immobili o agli interessi maturati sul capitale o a spese degli altri, e combatteva rigorosamente i “parassiti”. Lenin li metteva nella stessa categoria dei ricchi e dei delinquenti: tutti loro erano ostili al proletariato. “Chi non lavora non mangia”, era un altro slogan sovietico molto diffuso. La costituzione sovietica prevedeva il diritto al lavoro e garantiva a ogni cittadino un impiego. Il più delle volte si trattava di un inserimento in azienda dopo il diploma di istruzione professionale o superiore.
Nel 1964, Joseph Brodskij fu accusato di parassitismo sociale e condannato a cinque anni di lavori forzati (ma trascorse solo 18 mesi in esilio, poiché la sua pena fu commutata dopo le proteste dei suoi amici più influenti)
Fine Art Images / Heritage Images / Getty ImagesNegli anni Sessanta fu approvato un decreto per “intensificare la lotta contro chi si sottrae ai lavori socialmente utili e conduce uno stile di vita antisociale e parassitario”. Si ebbero vere e proprie retate di persone di questo tipo; ad esempio, durante la giornata lavorativa, sui mezzi di trasporto pubblici alle persone potevano essere chiesti i documenti e il motivo per cui non erano al lavoro.
Il decreto riguardava spesso dissidenti come poeti, scrittori e artisti che non erano pubblicati dalla stampa ufficiale sovietica e che non potevano lavorare ufficialmente. Uno degli esempi più celebri di coloro che furono colpiti dal decreto fu il poeta Joseph Brodsky (che fu mandato in esilio).
"No!"
Dominio pubblicoI bolscevichi utilizzarono molti precetti cristiani per formare il codice morale dell’uomo nuovo. Ad esempio, il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini (come nell’evangelica “Lettera ai Colossesi”: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero…”); la necessità di vivere per il bene comune e non per il proprio tornaconto (“Ama il prossimo tuo come te stesso”); il principio della carità e il rifiuto della proprietà privata (questo è uno dei voti quando si diventa monaci), la visione della donna come uguale all’uomo senza discriminazione di genere.
In assenza di una religione che combattesse i vizi umani, le autorità sovietiche dovettero creare nuovi modi per imporre la moralità e l’etica. Uno di questi modi era la censura pubblica. La persona che aveva commesso un atto immorale o si era comportata in modo “non sovietico” poteva essere convocata a una riunione dei colleghi (a scuola, all’università o sul posto di lavoro) e ricevere una reprimenda davanti a tutti. Dopotutto, non stava facendo vergognare solo se stessa, ma l’intero collettivo e l’intera Unione Sovietica in generale. Queste battaglie morali furono combattute soprattutto contro l’ubriachezza e lo stile di vita dissoluto. Ma i collettivi potevano anche interferire negli affari di famiglia e condannare, ad esempio, un marito infedele.
Censimento dei bambini senza tetto in URSS, 1926
TASSInoltre, per la prima volta nella storia della Russia, i sovietici si preoccuparono dell’educazione e dell’istruzione universale dei bambini. Non si trattava più di una questione familiare, ma di una questione di Stato.
Le autorità sovietiche combatterono anche attivamente contro la delinquenza giovanile. Dopo la Prima guerra mondiale, e soprattutto dopo la Guerra civile russa, molti bambini avevano perduto i genitori e ufficialmente c’erano circa 7 milioni di bambini senza famiglia (di cui solo 30.000 negli orfanotrofi). Molti bambini crescevano letteralmente “per strada” e, naturalmente, si dedicavano al furto e all’accattonaggio per sopravvivere. Lo Stato assunse il problema dei bambini di strada completamente sotto il suo controllo. Venne istituita una speciale Commissione per i bambini e furono aperti molti rifugi e scuole speciali. Gruppi di lavoro appositi operavano nelle stazioni ferroviarie, dove di fatto “accalappiavano” i bambini di strada, li sottoponevano a cure mediche, li nutrivano e li mettevano in orfanotrofio. Nel 1924 gli orfanotrofi e i rifugi per l’infanzia in giro per il Paese erano già 280 mila.
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