Raccontare barzellette negli anni Trenta-Quaranta era particolarmente pericoloso se riguardavano leader di partito, gente mandata ai lavori forzati o, peggio ancora, Stalin in persona. Tali battute erano un reato ai sensi dell’articolo del codice penale sulla “Propaganda antisovietica e controrivoluzionaria”, e potevano costare allo spiritoso che le raccontava dai 6 ai 10 anni nei Gulag, e persino la fucilazione durante il periodo della Seconda guerra mondiale. Ecco, ad esempio, una freddura per la quale un certo Sergej Popovich venne imprigionato per 10 anni:
“Una vecchia signora vede un cammello per la prima volta nella sua vita e inizia a piagnucolare: ‘Oh, povero cavallo, ecco come ti ha ridotto il potere sovietico…’”.
Anche chi si limitava ad ascoltare barzellette anti-sovietiche poteva avere guai, se non denunciava ciò che aveva sentito alle autorità: erano previsti fino a 5 anni di campo di lavoro per il reato di omessa denuncia.
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In Urss, dalla fine degli anni Trenta, quasi tutte le arti marziali erano severamente proibite (eccetto la lotta libera e quella greco-romana, la boxe, e il sambo; una creazione sovietica). In particolare erano osteggiate tutte quelle orientali, e i loro seguaci erano non di rado condannati come “spie”, il più delle volte giapponesi. Ma i karateka furono sicuramente i più sfortunati, perché la repressione durò più a lungo. Addirittura, nel 1981, apparve persino uno specifico articolo del codice penale: prevedeva 5 anni di prigione per chi praticava questo sport! La logica era la seguente: il karatè “è estraneo alla logica del combattimento corpo a corpo, coltiva crudeltà e violenza, infligge gravi ferite ai partecipanti, ed è permeato di un’ideologia a noi estranea”.
In realtà, solo una persona venne effettivamente condannata negli anni Ottanta in base a questo articolo: il celebre allenatore Valerij Gusev, che, secondo le indagini, insegnava segretamente agli studenti nei parchi forestali a pagamento. Peraltro non insegnava karatè, ma kung fu, ma le forze dell’ordine non andarono troppo per il sottile. Più tardi, in un’intervista al quotidiano ‘Moskovskij Komsomolets”, Gusev disse: “Il processo è stato davvero esemplare. Stavano cercando una persona con un cognome conosciuto… per dare una lezione. O forse è successo tutto perché poco prima del mio arresto ho rifiutato categoricamente un’offerta (anche se non ufficiale) di lavorare come allenatore per il Kgb. Forse chi mi ha messo nei guai era di alto rango, o ho pestato i piedi a qualcuno”.
Il pericolo di finire dietro le sbarre per il karatè non durò a lungo: con la Perestrojka, nel 1989, il reato fu abolito.
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Nel 1922, il Paese dei soviet depenalizzò le relazioni omosessuali. La legge, in campo sessuale, puniva ora solo per stupro, adescamento di minori, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale. Ma nel 1933, il commissario del popolo (ministro) agli Affari interni dell’Urss Genrikh Jagoda collegò, nel suo rapporto a Stalin, l’omosessualità alla controrivoluzione: i gay, secondo lui, avevano trasformato i loro centri di ritrovo in luoghi dove “sedurre i giovani” e sviarli dalla retta via socialista e dall’edificazione di una società comunista.
Così, un anno dopo, apparve un articolo nel codice penale che puniva con la reclusione fino a 5 anni i rapporti omosessuali. Ma solo gli uomini erano perseguitati, non le lesbiche. Per quanto ne sappiamo dalle ricerche d’archivio del professor Vladimir Volodin, dagli anni Sessanta, circa un migliaio di persone sono state condannate per questo articolo in Urss ogni anno e il picco delle condanne è avvenuto nel 1985 (non ci sono statistiche ufficiali consultabili, ndr).
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Al culmine del terzo piano quinquennale, nel 1940, fu necessario aumentare drasticamente il volume della produzione industriale, e lo scoppio della guerra in Europa costrinse a ottimizzare le forniture militari. Per stimolare la produzione, le autorità introdussero la settimana lavorativa di sette giorni, vietando di lasciare il posto di lavoro senza il permesso delle autorità, e punendo gravemente assenteismo e ritardi.
Per l’allontanamento non autorizzato dal posto di lavoro si rischiavano da 2 a 4 mesi di reclusione. Per un ritardo di almeno 20 minuti a inizio turno, per il rientro in ritardo dalla pausa pranzo o per l’assenza ingiustificata si avevano carichi di lavoro correttivo, ma, ripetendo più volte queste infrazioni, scattavano in automatico le pene detentive. Tanto che, in neanche tre mesi dall’esistenza della nuova regola, quasi un milione di persone venne condannata in tutto il Paese.
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La propaganda definiva l’Urss lo Stato dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Di conseguenza, mendicanti, senzatetto e disoccupati non potevano esistere. In realtà, ovviamente queste categorie di persone c’erano, ma non venivano tollerate in giro. Nel 1951 fu emanato un decreto “sulle misure per combattere elementi antisociali e parassiti”. Secondo questo provvedimento, tutti i senzatetto dovevano essere inviati per 5 anni in insediamenti speciali in aree remote dell’Unione. In altre parole, era una deportazione.
Dieci anni dopo, tutto divenne ancora più severo: iniziarono i processi per “tunejàdstvo”; “parassitismo” (mancanza di lavoro ufficiale). Le vittime di questa campagna non furono solo i senzatetto, ma anche chiunque avesse un reddito non ufficiale. Per mancanza di un tetto sopra la testa o di un lavoro ufficiale si poteva finire in prigione in qualsiasi momento, fino a un massimo di due anni. Rischiavano la condanna tassisti privati, muratori al nero, musicisti, ecc. Il famoso poeta Joseph Brodsky fu condannato “per parassitismo” e il popolare rocker Viktor Tsoj negli anni Ottanta ottenne un lavoro come fuochista (nell’oggi celebre locale caldaia “Kamchatka” di San Pietroburgo) solo per avere un “lavoro ufficiale” e non rischiare il carcere.
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Anche la “fartsovka”, termine gergale con cui si indicava il processo di acquisizione e rivendita di merci straniere, era illegale, ma fiorì negli anni Ottanta. I cittadini sovietici avevano solo due modi per acquistare qualcosa di “chic” prodotto nei Paesi capitalistici: andare all’estero (ma era consentito solo a pochi) o comprare da un fartsovshchik.
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Questi commercianti illegali erano principalmente giovani intraprendenti, oltre a coloro che incontravano costantemente stranieri per lavoro: guide, traduttori, tassisti, prostitute che si facevano pagare in valuta in hotel per stranieri, ecc. Potevano per esempio ottenere dei jeans Levi’s da stranieri e rivenderli ai loro concittadini con un grande ricarico. Nonostante agissero con grande circospezione e organizzassero gli incontri in luoghi riservati, questi venditori venivano talvolta arrestati, e rischiavano fino a 7 anni di prigione. Il reato di contrabbando di merci straniere è stato abolito nel 1991.
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Il popolo sovietico fu tagliato fuori dalla possibilità di possedere valuta estera nel 1927, quando i bolscevichi bandirono il mercato privato dei cambi e introdussero il monopolio statale in questo campo. Dieci anni dopo, in pieno periodo staliniano, per la compravendita di valuta si poteva rischiare la vita: apparve un articolo nel codice penale che equiparava queste transazioni valutarie a un crimine contro lo Stato. E nel 1961 apparve il famigerato articolo 88: prevedeva come pena da tre anni di reclusione al plotone di esecuzione (quest’ultimo in caso di importi particolarmente elevati). Questa legge draconiana è stata abolita solo nel 1994.
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Gli alcolici distillati in casa nell’Unione Sovietica potevano essere prodotti anche nei piccoli appartamenti dei palazzoni di città, e non solo nei villaggi. Ma la legge ha sempre colpito duramente chi lo faceva. Ad esempio, nel 1958, 52.143 persone furono condannate per produzione e vendita di alcol clandestino. La reclusione era da 6 a 7 anni per coloro che vendevano tali bevande illegali, e da uno a due anni per coloro che le preparavano per il consumo personale. Solo un alambicco trovato in casa poteva costare sei mesi di lavoro correttivo o una multa salata.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la distillazione domestica per uso personale ha cessato di essere un reato e, nel 2002, anche un illecito amministrativo.
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