Marta, che lavora alla scuola italiana di Mosca: "Com'è cambiata la vita in Russia con il Covid"

Viene da Milano ed è direttore amministrativo della Scuola paritaria "Italo Calvino": dalla didattica a distanza alla voglia di tornare sui banchi, ci racconta come si vive l'emergenza sanitaria nella capitale russa

Marta D’Arcangelo, classe 1989, milanese, o forse sarebbe meglio dire moscovita, è direttore amministrativo della Scuola “Italo Calvino” di Mosca, un istituto paritario, con classi che vanno dalla scuola dell’infanzia al liceo linguistico.

Lungo la Moscova, con sullo sfondo a destra le mura del Cremlino

Marta, partiamo dall’inizio, com’è finita in Russia?

La prima volta sono arrivata in Russia nove anni fa, da turista, con un’amica. Non sapevo granché del Paese, e non parlavo per niente russo. Ero più che altro attratta dall’ignoto. Non eravamo tanto brave a muoverci, e spendevamo tantissimo. Per fare un solo esempio, al ristorante per l’acqua: i russi non hanno l’abitudine di bere acqua a tavola, e quella di importazione, che vendono in bottigliette mono-bicchiere, costa carissima. Solo dopo ho imparato a bere il mors o il tè

Evidentemente, comunque, un innamoramento per la Russia c’era già da prima. E non per via della letteratura. Sarà brutto da dire, ma ho letto pochissimi classici russi! Mi sento una giornalista mancata, e la passione, la fascinazione, mi veniva dalla storia, da quella contemporanea, dell’ultimo trentennio, e degli anni Novanta in particolare. Mi è sempre sembrato incredibile come questo popolo abbia potuto affrontare una simile transizione, e nonostante tutto, ripartire; rinascere…

E il russo quando l’ha imparato?

Mi ero messa a prendere lezioni di russo a Milano, un’ora a settimana, ma mi sono resa conto che il russo non è una cosa da mezz’ore… Poi mi sono laureata in Storia contemporanea con una tesi su come i giornali sovietici avevano parlato di Chernobyl. E ho dovuto lavorare molto sui testi in archivio. Fu abbastanza una sorpresa per me, perché credevo di non trovare che poche righe. Invece ne avevano parlato un sacco! A modo loro, certo, ma un sacco. Comunque, ho capito che quello che mi mancava era sapere bene la lingua. E ho deciso di venire a studiarla. Avevo già 24 anni, mentre tutti i miei compagni di corso, 18 o 19… Ma ho continuato. Ogni volta che me ne andavo in Italia avevo la sensazione di dover tornare qui.

E quando ci è tornata definitivamente?

Due anni e mezzo fa. Ed è stato un po’ per caso. Mi hanno licenziata a Roma, ed ero disperata, perché quel lavoro mi piaceva moltissimo. Ma la cosa mi è sembrata anche l’occasione giusta per partire per Mosca, anche se in tasca avevo 400 euro e una formazione umanistica. Ho iniziato con lavoretti, e ora finalmente ho un posto fisso. Sono felice di essere stabile nella mia Mosca. Mi vedo qua negli anni a venire. Non so se per tutta la vita, ma per molto, sicuramente.

E com’è la vita alla Scuola “Italo Calvino”?

Abbiamo una bellissima comunità, più russa che italiana: quasi l’80 per cento di russi su 160 studenti, dalla materna al liceo linguistico. È una scuola straniera paritaria, che permette di andare in Italia a studiare. Ma, pur dando questo importante accesso, è molto più economica di una scuola americana o inglese, e, al di là della retta, ha un approccio tipicamente italiano, dove è forte il concetto di inclusione. Abbiamo per esempio bambini con difficoltà, che studiano insieme agli altri, con insegnanti di sostegno. E poi veniamo incontro alle famiglie con più figli… Si trasmette il modello Italia, insomma. Di solito, i bambini vengono qui perché hanno genitori che amano il nostro Paese, pur senza legami di nessun altro tipo. A mensa i bambini e i ragazzi mangiano cibo italiano, cantano le nostre canzoni… E tutti i nostri studenti escono dalla scuola trilingui: oltre a russo e italiano conoscono alla perfezione l’inglese.

Marta al Tempio di tutte le religioni, vicino a Kazan, Tatarstan

Ma ora, con l’emergenza Covid-19?

Siamo chiusi da metà marzo: un po’ prima delle scuole russe e del lockdown di Mosca [iniziato il 30 marzo, ndr]. Noi vedevamo la realtà italiana, e quindi abbiamo iniziato prima a premunirci; abbiamo cercato di stare molto attenti. E già in precedenza controllavamo la febbre a tutti, da una decina di giorni.

Ora lavoriamo a distanza. La cosa più bella sono gli insegnanti che cercano di tenere coinvolti i ragazzi. L’obiettivo è non far perdere il contatto. Ovviamente, con la didattica a distanza le maggiori difficoltà le hanno i più piccoli, che hanno una soglia di attenzione più bassa. Eppure, riescono a fare addirittura musica da remoto! Bisogna anche dire che i genitori si impegnano tanto. È un lavoro di squadra. Però i bambini chiedono di tornare a scuola. Una cosa mai vista! Gli manca il contatto.

E quando pensa che sarà possibile riaprire?

Non credo proprio che riapriremo in questo anno scolastico. E dico di più, anche per settembre dovremo pensare a una scuola diversa. Non mi illudo. L’asilo è dove vedo la situazione più difficile. Perché certo non puoi tenere i bambini fermi, a distanza di sicurezza…

Quali sono le principali differenze che ha notato tra la reazione degli italiani e quella dei russi all’emergenza?

All’inizio, ancora a metà marzo, ero innervosita per la poca preoccupazione e comprensione di quello che sarebbe stato. E ancora oggi ci sono parecchie persone, qui, che pensano che il virus non esista; che sia inventato dai media. A me pareva abbastanza banale capire come sarebbe finita. 

Poi con l’aumento dei casi di infezione l’atteggiamento è cambiato?

In generale, tutto è rimasto su un tono più basso. Non si sono viste città spettrali come in Italia. Più vuote del solito sì, ma non il deserto. Anche i controlli erano più discreti. È stata lasciata una maggiore libertà di movimento. In generale, tutto sembrava più pacato. Diciamo che i russi, rispetto agli italiani, sono più pasticcioni, ma meno chiassosi. A volte ti viene da pensare che non dicano tutto quello che dovrebbero dire sulle cose che non vanno, ma bisogna anche ammettere che sanno fare silenzio quando non c’è la necessità del rumore. In una situazione come questa, qualcosa dovremmo imparare: di molte polemiche sentite in Italia forse non ce n’era davvero bisogno.”

Prima di un tuffo nell’acqua gelida a Krasnogorsk, Regione di Mosca

C’è qualche altra lezione che ha appreso dal vivere in Russia?

Come dicevo prima, i russi anche solo negli anni Novanta hanno dato prova di un incredibile livello di resistenza. Di una capacità di sopportazione davvero oltre l’immaginabile per noi.

Ho conosciuto tanti, in questi anni, che, memori di quel periodo, avevano, anche in tempi non sospetti, quando il coronavirus non sapevamo nemmeno cosa fosse, scorte importanti di cibo a casa. Perché per loro la penuria non è un ricordo di tempi remoti come la guerra mondiale, ma di vent’anni fa. Noi italiani siamo molto viziati dal nostro territorio (per il clima, la bellezza, il cibo…). E siamo nati con almeno una generazione alle spalle che ha vissuto bene, e a cui bastava anche un semplice diploma per un tenore di vita abbastanza alto e la garanzia di un buon lavoro. Ma la Russia ti insegna, se esci da Mosca, che si può vivere in un modo diverso, rispetto all’unico che noi conosciamo e che ci sembra naturale. E forse che si può vivere anche meglio, sotto certi aspetti. 

Lei ha provato a vivere lontano dalla capitale?

Sì, anche se non ho viaggiato molto in Russia (a parte diverse volte in Tatarstan). Ricordo però la mia prima esperienza fuori da una delle due grandi metropoli russe; lontana dalle luci della città. Dovevo restare là un mese e, abituata alla mia vita a Milano e a Mosca, sono partita con quattro valigie zeppe di vestiti. Penso di aver usato solo una maglietta per tutto il tempo! E ho capito che tutta quella roba che avevo, e anche gran parte delle cose che sapevo, erano inutili. Vivevo con una famiglia in cui credo che anche il bambino di cinque anni sapesse fare più cose di me e che sarebbe riuscito a sopravvivere in una foresta meglio di me. Eravamo non lontani da Mosca, dalle parti di Khimki, ma era già un modo di vivere totalmente diverso; più semplice ma più autosufficiente.

Io fino ad allora avevo conosciuto solo la Mosca da occidentale, da persona con gli euro in tasca, che già è diversa da quella di tanti moscoviti che mangiano la kasha a colazione tutti i giorni e le patate quattro volte a settimana. Ma là era proprio un altro modello. Ti faceva capire che si può vivere anche in un altro modo. E credo che questa sia la lezione principale che ti dà la Russia. Essendo così varia, vasta, e così differente da come ci viene sempre raccontata, mette alla prova ogni stereotipo, e chi viene qua deve essere pronto ad aprirsi, a mettere da parte tutte le sicurezze un po’ superficialmente consolidate.

A proposito degli stereotipi, quali sono quelli che la infastidiscono di più degli italiani sulla Russia e dei russi sugli italiani?

Tra quelli degli italiani sulla Russia, se lasciamo perdere le persone che pensano che qui sia freddo ovunque e tutto l’anno, direi l’idea diffusa che sia un Paese insicuro. Come donna, per esempio, spiace dirlo, ma la sicurezza assoluta che provo qui, anche rientrando da sola a tarda notte, nella mia Milano non l’ho mai provata. E poi mi infastidisce quando gli italiani, superficialmente, dicono di non capire perché la Russia abbia questo sistema e anche questa classe politica, senza pensare a quello che c’è stato prima; al trauma degli anni Novanta.

Dei pregiudizi in senso inverso, quelli dei russi nei nostri confronti, mi infastidisce quando mi danno dell’‘occidentale’, con quel tono da Guerra fredda. Che vuol dire ‘occidentale’? Quante differenze ci sono tra un italiano e un altro cittadino dell’Unione europea? Per non parlare degli Stati Uniti! Glielo perdono solo perché di solito i russi viaggiano molto meno di noi.

Comunque, il brand Italia qui ha una forza immensa, e la passione per il nostro Paese non si scalfisce nemmeno di fronte a mosse poco amichevoli da parte nostra. È un amore che va avanti, nonostante in Italia non sia ricambiato, o perlomeno non sia così diffuso.

Sul circuito di Formula1 di Sochi, Territorio di Krasnodar

Però in Russia si vedevano sempre più turisti italiani prima dell’emergenza coronavirus…

La Russia stava facendo un grosso sforzo di apertura negli ultimi due tre anni. Anche l’immagine stava iniziando a cambiare, pur rimanendo una meta di nicchia. E cosa più importante: i costi si stavano abbattendo, grazie alle low cost e soprattutto al visto elettronico gratuito per San Pietroburgo, che sarebbe poi stato esteso a tutto il Paese dal 2021. Insomma, si era sulla strada giusta. Adesso questi piani sicuramente rallenteranno. Ma non la vedo malissimo. Magari dopo questa situazione ci sarà qualche apertura ulteriore… Anche se io ho un po’ di nostalgia di quella cortina di carta che era la complicatissima pratica anche del solo visto turistico. Era già la prima avventura del viaggio.

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Marta al Parco VdnKh di Mosca

Ora le frontiere sono chiuse. Che effetto le fa?

Ho tutti i parenti in Italia. E all’inizio ero molto preoccupata, anche perché vivono proprio in Lombardia, e ho i nonni anziani. E soffrivo all’idea di non poter rientrare in caso fosse successo qualcosa di brutto. Una sensazione pesante, questa, di non potersi muovere, che c’è ancora adesso e durerà chissà per quanto.

Prima del Covid-19, con relativamente pochi soldi e tre ore di viaggio sarei stata a casa. Mi manca l’Italia, perché quando vedi il tuo Paese così in difficoltà, ti viene fuori tutto il patriottismo che non pensavi nemmeno di avere.

Però, devo essere sincera, avrei sofferto di più a rimanere bloccata in Italia e a non poter venire in Russia. Ovviamente, là ho i miei familiari e spero che vada tutto bene, ma qui c’è casa mia, al di là del lavoro. È questo il posto dove sono stata di più negli ultimi anni, e che sento più mio.

Cosa consiglierebbe a chi ama la Russia, ma in questo momento non può venire a visitarla? Noi di Russia Beyond cerchiamo di proporre libri, film, spettacoli per sopperire temporaneamente…

Se si è agli inizi e si vuole cominciare a informarsi, i libri del professor Gian Piero Piretto sono l’ideale. Molto accessibili, adatti per il grande pubblico. Ad esempio, il suo ‘Quando c’era l’Urss. Settant’anni di storia culturale sovietica’ (Raffaello Cortina editore). Per chi, invece, ha già una conoscenza di base e vuole approfondire, consiglio ‘La Russia post-sovietica. Un viaggio nell’era Eltsin’ di Roj Medvedev (Einaudi).

E poi, ovviamente, invito a venire qua, non appena sarà possibile. Per vedere con i propri occhi che la Russia non è tutta grigia e tutta steppa, come spesso si immagina in Italia. E i suoi colori sono il verde verdissimo delle foreste e l’azzurro del cielo sopra le campagne. Il cielo mi sembra sempre più grande qui. Mi chiedo sempre dove finisca. Ma il cielo di Russia non finisce mai.


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