In trip con Dostoevskij, il viaggio “stupefacente” di Sorokin raccontato da Bianca Sulpasso

Anton Romanov
Cosa accadrebbe se si assumessero Tolstoj e Dostoevskij come se fossero una droga? Quale “trip” farebbe il lettore? Partendo dal testo teatrale di Vladimir Sorokin, la professoressa Bianca Sulpasso ci accompagna in questo viaggio stupefacente nel mondo di Dostoevskij: appuntamento il 28 ottobre, in presenza e in streaming, nell’ambito del Festival della Cultura Russa di Roma

In un viaggio dentro e attraverso la letteratura, quali potrebbero essere gli effetti di una droga che abbia per base Dostoevskij? Se lo chiede Bianca Sulpasso, professore associato di letteratura russa all’Università di Roma “Tor Vergata”, nella sua conferenza “Dostoevskij - Trip”, in programma al Festival della Cultura Russa di Roma (giovedì 28 ottobre alle 19, in presenza e in streaming; programma completo qui). Partendo dal testo teatrale di Vladimir Sorokin, Sulpasso accompagnerà il pubblico nel viaggio “allucinogeno” di chi “assume” - come fosse una droga - Dostoevskij.

“Dostoevskij - Trip” (pubblicato per la prima volta sulla rivista Mesto Pechati nel 1997) è una pièce teatrale straordinariamente emblematica della poetica di Sorokin e della drammaturgia contemporanea, e ha riscosso consensi di pubblico sia in patria, sia all’estero. 

Oggi, grazie al Festival organizzato dall’Istituto di Cultura e Lingua russa di Roma con il sostegno del Forum di Dialogo italo-russo e Russia Beyond, sarà possibile rivivere il “viaggio stupefacente” di Sorokin, che nel suo testo teatrale non solo ricrea lo stile letterario dostoevskiano, ma inserisce interi dialoghi tratti dall’Idiota, riproposti con lievi modifiche.

Abbiamo colto l’occasione per fare due chiacchiere con Bianca Sulpasso, e capire insieme a lei perché Dostoevskij continua a essere così straordinariamente geniale e contemporaneo. 

Professoressa, secondo Hermann Hesse, “dobbiamo leggere Dostoevskij quando ci sentiamo a terra, quando abbiamo sofferto sino ai limiti del tollerabile e tutta la vita ci duole come un’unica piaga bruciante e cocente, (...) Allora, nel momento in cui (...) volgiamo lo sguardo alla vita e non la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e magnifico poeta”. Secondo lei Dostoevskij è davvero uno degli autori ai quali dovremmo rivolgerci per affrontare questo periodo buio dell'umanità, piegata dalla pandemia? 

Ricordo che mi sorprese come, proprio agli inizi della pandemia, risuonasse sulla stampa il sogno “apocalittico” di Raskolnikov, protagonista di “Delitto e castigo” (“tutto il mondo condannato a rimaner vittima d’una qualche tremenda epidemia mortale, mai vista né sentita, che dal profondo dell’Asia avanzava in Europa…”). Io credo che, in generale, a Dostoevskij dobbiamo e possiamo rivolgerci sempre. Ma, senza dubbio, Dostoevskij è lo scrittore in grado di ricordarci quanto sia possibile trovare squarci di speranza e bagliori proprio nei periodi di massima oppressione, di buio, di solitudine, di spazi-cella fisici e interiori. Perché, come ricorda D. Rebecchini, “se c’è speranza per Raskolnikov, allora c’è per tutti noi”. 

Fedor Dostoevskij

Quest’anno ricorrono i 200 anni dalla nascita di Dostoevskij, un autore che continua a stupirci per la sua contemporaneità: per come ha saputo raccontare delitti terribili, analizzare i comportamenti più meschini dell’uomo, scavare negli abissi dell’animo umano… Qual è, secondo lei, l’aspetto più “contemporaneo” di questo grande scrittore?

Scriveva Italo Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, che il lettore spera sempre d’imbattersi nella novità vera, che essendo stata novità una volta continua ad esserlo per sempre. Quando leggiamo Dostoevskij abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un evento straordinario: catastrofe, carnevalizzazione, riso, pianto, catarsi orchestrati nel romanzo polifonico. Ci propone il “modello di un mondo”, notava il professor De Michelis, e quel che è straordinario, è che questo mondo lo sentiamo sempre attuale. Sembra che abbia scritto i suoi romanzi ieri, oggi, e che non ci sia distanza alcuna tra noi e lui. È come se fosse contemporaneo a tutti i lettori, di ogni tempo, forse è questo l’aspetto davvero più contemporaneo. 

In generale, quale lezione dovremmo imparare, noi, uomini e donne del XXI secolo, da Dostoevskij?

Leggere Dostoevskij è un viaggio nell’animo umano, in quei luoghi riposti che l’arte non sempre ama esplorare. “L’uomo è un mistero – scrive un giovanissimo Dostoevskij al fratello Michail, nel 1839 – Un mistero che dobbiamo decifrare, e anche se questo intento occuperà l’intera vita, non dire di aver perso tempo; io mi occupo di questo mistero perché voglio essere un uomo” (cito dalla bellissima edizione “Lettere” appena uscita per il Saggiatore). In una contemporaneità in cui bisogna essere necessariamente vincenti, ad ogni costo, in cui la debolezza è un difetto, questa straordinaria capacità di scandagliare senza orpelli nelle pieghe e nelle debolezze più profonde, ricordandoci, però, che l’uomo è capace di bagliori, redenzione, speranza, ricordandoci il ruolo prioritario dell’arte e della letteratura: ecco, questa è per me una lezione straordinaria. Ci sono scene indimenticabili che, una volta lette, restano per sempre con noi. Penso, tra le tante, tantissime, a Sonja che torna a casa dopo essersi prostituita la prima volta, e senza proferire verbo consegna i trenta rubli, si sdraia sul letto, avvolta nello scialle verde, guardando la parete, con le spalle e il corpo che tremano, penso a Katerina Ivanovna che la bacia, piangendo, all’immagine di queste due donne che si addormentano insieme, abbracciate. 

Lei insegna all’Università ed è quindi a stretto contatto con gli studenti: come si relazionano i giovani di oggi con la letteratura russa? Cosa "cercano" nei capolavori dei grandi autori russi?

È interessante notare come, in fondo, le ragioni che avvicinano i giovani alla Russia e alla letteratura russa sono le più diverse, ma per certi versi simili a quelle per cui tanti anni fa io e tanti amici abbiamo scelto lo stesso cammino. A volte è per  curiosità, la sensazione che in questo paese, in quelle strane parole che trovano in corsivo nei romanzi e che chissà come si pronunciano, in quei realia sospesi nel testo, ci siano delle chiavi d’accesso a un mondo affascinante. A volte cercano solo questo, la promessa di qualcosa di diverso. A volte, invece, sono affascinati dalla storia o da testi concreti. Durante le prime lezioni, al primo anno, chiedo sempre perché abbiano scelto la letteratura russa e cosa abbiano già letto. Quest’anno molti studenti avevano già letto proprio Dostoevskij. Ho chiesto perché, e uno di loro mi ha risposto: “Professoressa, perché Dostoevskij è pop”, è “contemporaneo, in lui c’è un po’ di tutto, anche il thriller”. Lo scrittore Viktor Erofeev sosteneva che la Russia è un po’ come l’Aquila bicipite, con una testa guarda a Oriente, con l’altra a Occidente: anche in questo riposa il suo fascino, per noi e per gli studenti, la sentono diversa, eppure così vicina.

Veniamo al Festival della Cultura Russa: lei sarà tra gli ospiti più attesi e incontrerà il pubblico il 28 ottobre con la conferenza “Dostoevskij – Trip”. Può darci qualche anticipazione del suo intervento?

Innanzitutto ci tengo molto a ringraziare l’Istituto di Cultura Russa e Leonardo Fredduzzi per l’invito, per questo festival ormai diventato prezioso per tutti noi, e, più in generale, per quello che l’Istituto ha fatto anche nei difficili mesi di reclusione forzata da pandemia, quando improvvisamente è spuntato un ricco calendario di eventi online che ha regalato a tutti noi - relatori e ascoltatori - una vera e propria boccata d’ossigeno. Per quanto riguarda il mio intervento - e a proposito della “contemporaneità” di Dostoevskij - io racconterò il “Dostoevsky trip” di uno scrittore contemporaneo, Vladimir Sorokin. Il “trip” rimanda solo apparentemente a quello allucinogeno alla Timothy Leary. Quelli di Sorokin sono “viaggi a tema”. E il tema è la letteratura. La scena della pièce si apre su una stanza poveramente ammobiliata: cinque uomini e due donne aspettano febbrilmente il loro Pusher. Drogarsi con Tolstoj o Balzac non produce ovviamente gli stessi effetti. Uno dei protagonisti si domanda perplesso “perché tutti quelli che assumono Céline, Genet e Sartre debbano essere sempre così nervosi”. Thomas Mann “può andare”, ma se miscelato con Charms, Nabokov è “roba da ricchi” e chi usa Tolstoj si riconosce a distanza… In un mondo di droghe letterarie, cosa succede se “ci si cala Dostoevskij”? La risposta… giovedì prossimo. 

Eventi come il Festival della Cultura Russa sono occasioni di grande importanza per abbattere barriere culturali e promuovere la conoscenza fra i popoli; secondo lei, cos'altro si potrebbe fare in Italia per far conoscere il volto più autentico della Russia? Non le sembra che ci siano ancora troppi stereotipi su questo paese? 

Penso che sarebbe utile dare più importanza ai classici russi a livello scolastico (la letteratura russa fa bene!) e implementare lo studio della lingua russa nelle scuole superiori. Negli incontri con culture “altre” il rischio degli stereotipi c’è e spesso finisce per innalzare muri. Sta a noi, docenti, mediatori culturali, a voi giornalisti, raccontare un’altra Russia, creare ponti; sta al processo culturale ed editoriale creare le condizioni perché si possa approfondire l’incontro con l’arte, la musica e lo spettacolo, perché si possano non solo ripubblicare i classici, ma anche gli autori contemporanei. Ci sono case editrici che lavorano in questa direzione, dissotterrando tesori, penso a quello che da sempre fa la casa editrice Voland, ma anche a Stilo Editrice, ad Atmosphere. 

Il pubblico italiano conosce soprattutto gli autori classici russi, e meno gli scrittori contemporanei: quali autori russi contemporanei ci consiglierebbe di leggere?

Il panorama della letteratura russa contemporanea è davvero molto ricco e variegato; tra i poeti, uno di quelli che amo di più è Boris Ryzhij, oggi accessibile al lettore italiano nelle bellissime traduzioni di Laura Salmon; tra i prosatori, oltre al menzionato Sorokin, consiglio caldamente Marija Stepanova, poetessa, critica letteraria e autrice di un libro straordinario, “In memoria della memoria”, edito da Bompiani. Nelle sue pagine risuona la grande letteratura russa. Penso che sia bello, poi, addentrarsi tra gli autori contemporanei anche un po’ “degustando”: un aiuto può arrivare da antologie e sillogi di prosa e poesia uscite recentemente (ad esempio “Falce senza martello”, pubblicata da Stilo editrice e curata da Giulia Marcucci, mentre in ambito poetico si può fare riferimento ai lavori di Massimo Maurizio, Alessandro Niero, Marco Sabbatini). 

Facciamo un passo indietro nel tempo: lei ha trascorso lunghi soggiorni all’estero, ovviamente anche in Russia. Quali sono i ricordi più piacevoli che ha del periodo trascorso all’Università RGGU di Mosca? Quali “stranezze” della vita russa la colpirono maggiormente? 

La mia prima volta in Russia è stata nel 1998, a San Pietroburgo. Durante quel soggiorno trascorsi tre giorni a Mosca e non mi uscì più dal cuore. Dal 1999 in poi la mia Russia è sempre stata principalmente Mosca, la mia “casa” era a Miusskaja Ploschad’, all’RGGU, appunto, dove di anno in anno ho praticamente sperimentato ogni piano dei diversi “korpus” (blocchi dello studentato, ndr). Tra i ricordi più belli la vita in comune, senz’altro, e quella sensazione di condividere qualcosa di profondo, anche nelle difficoltà. Con alcune amiche e amici del tempo ci dicevamo che andare in Russia era come entrare attraverso una porta speciale in un mondo diverso, in una dimensione altra. Che amavamo di più. Poi ognuno ha la sua Russia, proprio come diceva Dmitrij Prigov a proposito di Mosca. È per questo che alcuni di noi hanno poi scelto la Russia nella vita di tutti i giorni: chi si è trasferito in pianta stabile in Russia, chi ha portato la Russia in Italia, scegliendola come “compagna di vita” nel lavoro. L’RGGU è poi per me tanti volti, tante persone: è Galina Danilovna Muraveva, sono i tanti amici che si sono piantati nell’anima e lì sono rimasti, è il gruppo del Mezhdunarodnyj Otdel, Petr Petrovich, che ti guardava inizialmente severissimo salvo prorompere poi in una sonora risata, Olesja Egorova. Ricordo il mio primo inverno russo dalle finestre dell’RGGU, il primo disgelo, quando scopri che la primavera è quello scrollarsi di neve dai rami, ed escono i primi germogli. Ricordo la straordinaria potenza dell’arte e della letteratura nella vita di tutti i giorni, la sorpresa quando, degustando una meravigliosa zuppa di funghi al Proekt Ogi, improvvisamente si alzava al tavolo accanto un poeta a citare versi. Ricordo il mio primo shashlyk, la mia prima vodka, la mia prima dacia. E questa sensazione di trovarsi fuori del tempo, in una dimensione altra, a volte del tutto irrazionale, e in cui improvvisamente, però, tutto ha senso. All’RGGU ricordo anche la mia prima tempesta di neve, con Katia e Adele. Fuori infuriavano raffiche di fiocconi enormi che così grandi non ne avevo mai visti, e noi al caldo, acciambellate sulle poltrone, protette dall’RGGU e avvolte da Mosca, gigantessa addormentata.

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