Secondo uno studio globale sulla lettura dei libri, condotto dall’istituto di ricerche di mercato GfK nel 2017, il 59% dei russi diceva di leggere libri ogni giorno o almeno una volta alla settimana; il che significava secondo posto al mondo dopo la Cina. Il numero si basa solo sulle risposte delle persone intervistate, ma anche se fosse comprovato, non sorprenderebbe più di tanto. Storicamente, questo Paese è sempre stato incentrato sulla letteratura: in Russia, come scrisse Evgenij Evtushenko, “un poeta è più di un poeta”. E lo stesso vale per chi scrive in prosa.
Prendete Lev Tolstoj (1828-1910). Nel 1900 era in Russia come i Beatles in Occidente negli anni Sessanta, o Beyoncé oggi; forse più popolare dello stesso imperatore russo. Dopo che l’autore si era scontrato con la Chiesa ortodossa e con il giovane imperatore Nicola II nel 1901, chiedendo uguaglianza e maggiori diritti per i contadini, l’editore Aleksej Suvorin scrisse: “Abbiamo due zar: Nicola II e Lev Tolstoj. Chi è più forte? Nicola II non può fare nulla contro Tolstoj, non può scuotere il suo trono, ma Tolstoj fa traballare il trono della dinastia Romanov”.
Certo, il caso di Tolstoj era molto particolare: dal 1880 in poi era diventato più un filosofo e una figura pubblica che uno scrittore di narrativa. Tuttavia, anche altri giganti della letteratura del diciannovesimo e ventesimo secolo, come Fjodor Dostoevskij, Ivan Turgenev, Anton Chekhov, Maksim Gorkij e così via, influenzarono l’opinione pubblica russa con i loro romanzi, che furono certamente più influenti di qualsiasi ministro zarista e dei suoi ordini. Fu allora che iniziò l’ossessione dei russi per la letteratura.
“Tra il XVIII e il XX secolo, la vita pubblica in Russia girava attorno alla letteratura”, spiega Lev Oborin, poeta e critico letterario. Mentre i monarchi occidentali stavano lentamente rinunciando al potere assoluto, passando a sistemi parlamentari, l’imperatore russo godeva di un’autocrazia assoluta, e quindi l’unico posto in cui criticare il potere era sulle pagine di un romanzo.
“A causa dell’assenza di una vera politica, gli scrittori divennero i difensori della libertà e i propugnatori di tesi progressiste”, scrive Oborin. Non avevano altra scelta che scrivere dello stato d’animo dei russi comuni, i mali della servitù della gleba (abolita solo nel 1861), la strana natura dell’anima russa in bilico tra Occidente e Oriente, e così via; usando metafore e allegorie per sfuggire alla censura.
Purtroppo, la stragrande maggioranza dei russi non sapeva nulla della lotta intellettuale dei loro scrittori, perché non sapeva leggere. Secondo i censimenti nazionali di fine XIX e inizio del XX secolo e fino a quello del 1913, almeno il 60% degli adulti russi era analfabeta. Solo il governo sovietico riuscì a fornire istruzione al suo popolo e gli permise di leggere i grandi scrittori del periodo imperiale.
Sebbene brutali nel distruggere i loro rivali politici (e in seguito se stessi), è un fatto è che i bolscevichi migliorarono il livello di istruzione: nel 1939, l’87% dei cittadini sovietici sapeva già leggere e scrivere, e l’occhiuto Stato sovietico fece sempre del suo meglio per fornire loro tutti i libri di cui avevano bisogno. Purché fossero in linea con gli ideali marxisti.
Fu sempre nel periodo sovietico che venne istituito il programma scolastico di letteratura che, con qualche correttivo, è quello che è usato ancora oggi nelle scuole russe: Aleksandr Pushkin, Lev Tolstoj, Anton Chekhov e così via. “Questi scrittori erano dissidenti per il regime zarista… L’ideologia sovietica li fece così passare per suoi alleati storici… anche se non erano certo socialisti”, spiega Lev Oborin.
Ovviamente lo Stato decideva cosa pubblicare. Classici russi? Certo. Qualche autore straniero non troppo problematico (Hemingway, Remarque, Salinger)? Va bene. Ma, soprattutto, stampava in milioni di copie le opere complete di Lenin, Marks ed Engels. E, per esempio, delle memorie di Leonid Brezhnev sulla sua esperienza di combattimento nella Seconda guerra mondiale furono stampate nel 1978 venti milioni di copie.
L’Urss non risparmiò mai carta per enormi tirature: negli anni Ottanta furono venduti miliardi di libri. “C’erano circa 50 miliardi di libri solo nelle biblioteche domestiche [in tutta l’Unione Sovietica]”, scrive lo storico Aleksandr Govorov in “Istorija knigi” (“Storia del libro”). Ciò fornì all’Urss le basi numeriche per autodefinirsi “la nazione che legge di più”; una formula che è ancora molto popolare e salta fuori ogni volta che qualcuno si esercita con la nostalgia dei “bei vecchi tempi sovietici”.
L’unico problema era la totale assenza di scelta. “Le tirature crescevano, ma la domanda rimaneva insoddisfatta”, sottolinea Govorov. Le persone volevano narrativa e libri d’evasione, ma lo Stato continuava a dar loro testi marxisti, che giacevano in pile nelle librerie, invenduti.
“Venivano pubblicati molti libri in termini di quantità, ma ciò che finiva nelle librerie in base al diktat ideologico ed economico non rifletteva ciò che i clienti volevano leggere”, riassume Govorov. In tali circostanze, nessuno, a parte i critici letterari, si preoccupava più di Lev Tolstoj: la gente reclamava la libertà di leggere ciò che voleva.
Con la Perestrojka, alla fine degli anni Ottanta, poco prima del crollo dell’Urss, i sovietici ebbero finalmente la possibilità di leggere quello che volevano. È una storia lunga e abbastanza particolare quella di come il mercato del libro sia emerso e si sia sviluppato nella Russia contemporanea; ma da tre decenni ha grossomodo le dinamiche del resto del mondo capitalista. E se prima i russi erano la nazione che leggeva di più, ora non è più così.
Come accennato in apertura, la ricerca di GfK del 2017 ha classificato la Russia al secondo posto al mondo per numero di lettori. Ma gli addetti ai lavori dell’industria editoriale russa dubitano di una valutazione così ottimistica.
“Seguiamo con attenzione le vendite sul mercato del libro e attualmente in Russia non crescono”, ha dichiarato Elena Solovjova, direttrice della rivista di settore “Knizhnaja Industrija” (“Industria libraria”).
In effetti, le tirature sono diminuite progressivamente negli ultimi dieci anni: da 760 miliardi di copie stampate nel 2008 a 432 miliardi nel 2018. La questione, tuttavia, è molto complicata, a causa della crescita delle vendite di libri elettronici, e di un mercato pirata molto sviluppato e completamente non studiato.
In ogni caso, l’attuale interesse russo verso la letteratura è stabile, ma le prospettive future non sono incoraggianti: non c’è un nuovo Lev Tolstoj all’orizzonte, e gli anni della megalomania della stampa sovietica sono finiti. Oggi le persone preferiscono altri tipi di intrattenimento: la letteratura deve competere con Netflix, YouTube e milioni di pagine web, quindi le probabilità di riscatto non sono buone. Ma questa è una tendenza globale.
“In tutto il mondo, l’interesse verso la lettura è in declino, e la Russia, purtroppo, sta seguendo la stessa tendenza”, ammette la critica letteraria Galina Juzefovich. “Ma negli ultimi anni è diventato assolutamente chiaro: la lettura ha un pubblico stabile, un nocciolo duro che non scambierà mai un libro per altri tipi di intrattenimento”.
Quindi, anche se la Russia legge meno di prima, è molto improbabile che possa mai smettere di leggere del tutto.
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