Una bambina prodigio e una poliglotta
Marina Cvetaeva (1892-1941) proveniva da una famiglia di artisti. Suo padre, Ivan, era un professore di Belle Arti, fondatore del Museo Pushkin delle Belle Arti di Mosca, e sua madre, Marija Aleksandrovna Mejn, era una pianista; una delle migliori allieve di Nikolaj Rubinstejn. Forse perché circondata da arte e musica, la Cvetaeva fu una bambina estremamente precoce. Iniziò a scrivere poesie all’età di sei anni e prese rigorose lezioni di pianoforte. A 16 anni studiava alla Sorbona di Parigi, e a quel tempo cominciò a scrivere poesie in francese e in tedesco. La sua prima raccolta di poesie venne pubblicata quando aveva appena 18 anni. Da adulta, la Cvetaeva poteva parlare e leggere in russo, francese, tedesco e italiano, e con il famoso poeta Rainer Maria Rilke teneva una fitta corrispondenza in tedesco.
La Cvetaeva aveva un rapporto “complicato” con la madre
Marija Aleksandrovna, la madre della poetessa, ebbe molte delusioni dalla vita. Dopo una relazione con un uomo sposato che amava, fu costretta a sposare Ivan Vladimirovich Cvetaev. Da lui ebbe due figlie femmine, anche se desiderava ardentemente dei maschi. Era ancora delusa da questo quando, per di più, scoprì che la maggiore, Marina, stava abbandonando il pianoforte per scrivere poesie. La scoraggiò a intraprendere la via della scrittura, ma senza successo. Quando la poetessa era ancora ragazza, seppe dell’infelicità della madre leggendo il suo diario:
“… aveva sposato un vedovo con due figli, per disgrazia di quei figli e degli altri, pur amando e continuando ad amare l’altro uomo…” (così cita Simon Karlinskij nel suo libro “Marina Tsvetaeva: The Woman, Her World, and Her Poetry” (1985).
Secondo quanto scrive Karlinskij, la Cvetaeva si sentiva non desiderata da sua madre e spesso sognava di essere adottata da una creatura immaginaria. La poetessa ha anche affermato di aver avuto “un desiderio frenetico di perdersi” nella città di Mosca, già quando aveva meno di tre anni. Quando di anni ne aveva 14, sua madre morì di tubercolosi, ma continuò a essere una figura centrale per la scrittura della Cvetaeva e lo sviluppo della sua poetica, tanto che le dedicò anche uno scritto di memorie “Mia madre e la musica”.
La Cvetaeva era bisessuale
Marina Cvetaeva ha avuto almeno due relazioni ben note con donne: la prima, con la poetessa Sofija Parnok, e la seconda con l’attrice Sofija Evgenjevna Holliday. Ha documentato il suo rapporto con la Parnok nella novella autobiografica “Il racconto di Sonecka”. A volte, la poetessa si è fatta beffa delle consuetudini sociali sull’identità sessuale nei suoi diari e nelle lettere:
“Per una donna amare solo le donne, o per un uomo amare solo gli uomini, deliberatamente escludendo il contrario convenzionale: quale orrore! Ma dire che solo gli uomini possano amare le donne, o che solo le donne possano amare gli uomini, esclude l’insolito - che monotonia!” (Annotazione sul diario del 9 giugno 1921).
Ci sono ancora domande senza risposta riguardo al suo suicidio
Nel 1939 la Cvetaeva tornò a Mosca dopo aver trascorso molti anni in esilio. Lei e suo figlio Georgij (chiamato spesso “Mur”) si ricongiunsero con sua figlia, Alja, e con il marito Sergej Efron. Probabilmente il fidanzato di Alja era un agente dell’Nkvd, la polizia segreta, incaricato di spiare la famiglia. Dopo poco, sia il marito che la figlia furono arrestati. Efron venne poi fucilato il 16 ottobre 1941, Alja rimase in carcere oltre otto anni. Il 31 agosto 1941, in uno stato di totale disperazione, la Cvetaeva si impiccò, nella città di Elabuga, nel Tatarstan. Tuttavia, ci sono diverse teorie sul suicidio. Alcuni sostengono che sia stata costretta da agenti dell’Nkvd. La studiosa Irma Kudrova offre invece tre opzioni: 1. La sorella della Cvetaeva, Anastasia, avrebbe insistito, convincendola che, uccidendosi, la poetessa avrebbe almeno salvato Mur; 2. La Cvetaeva soffriva di una malattia mentale; 3. Non accettò il ricatto di entrare nell’Nkvd come spia per cercare di salvare i suoi familiari incarcerati.
Vedeva la poesia come fonte di vita
Le poesie della Cvetaeva sono notevolmente difficili da tradurre, in parte a causa della filosofia linguistica dell’autrice e del suo rapporto con la poesia. Credeva che le parole avessero una connessione diretta con l’essenza delle “cose”, cioè con lo spirito della vita. Iosif Brodskij una volta ha osservato che “tra parola e azione, arte e vita, per lei non c’era alcuna virgola, nessun trattino; li metteva sullo stesso piano”. In effetti, lei pensava alla poesia come fonte della stessa vita:
Стихи растут, как звезды и как розы,
Как красота — ненужная в семье.
А на венцы и на апофеозы —
Один ответ: «Откуда мне сие?»
Мы спим — и вот, сквозь каменные плиты,
Небесный гость в четыре лепестка.
О мир, пойми! Певцом — во сне — открыты
Закон звезды и формула цветка.
I versi crescono, come le stelle e come le rose,
come la bellezza – che in famiglia non serve.
E, alle corone e alle apoteosi –
una sola risposta: “Da dove mi viene questo?”
Noi dormiamo, ed ecco, attraverso le lastre di pietra,
il celeste ospite, in quattro petali.
Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno – scopre
la legge della stella e la formula del fiore.
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