Disegno di Aleksej Iorsh
La vittoria di Trump ha colto di sorpresa gran parte degli analisti politici, che avevano focalizzato l’attenzione in materia di politica estera soprattutto sullo staff dell’ex segretario Hillary Clinton. Su Trump ci si limitava a commentare che s’intendeva poco di politica estera e che i suoi consiglieri in quest’ambito erano personaggi poco noti. Tuttavia, il problema della ricerca di consiglieri preparati potrà essere risolto in un arco di tempo relativamente breve. Nella comunità di esperti americana non mancano certo i talenti e il numero di coloro che non vedono l’ora di passare (o entrare) nello staff dell’inaspettato vincitore della corsa alla presidenza più drammatica e imprevedibile della storia del dopoguerra americano oggi è più che sufficiente.
Al tempo stesso, però, il Presidente degli Stati Uniti è destinato tradizionalmente a lasciare un forte imprinting personale sulla politica estera, ambito nel quale dispone di più potere decisionale che non nella politica interna. Così ci si attende da Trump una politica molto “brillante” sotto tutti i profili, ma nondimeno, non così “brillante” come si poteva pensare ascoltando le sue dichiarazioni piene di pathos, congegnate per un pubblico pre-elettorale. Per esempio, è assai improbabile che già da domani venga avviata la costruzione del “muro” sul confine col Messico. Una simile opera richiederebbe cospicui investimenti in denaro e il diritto di decidere qualunque assegnazione di bilancio compete esclusivamente alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. E a nessun altro. Al tempo stesso Trump cercherà di inasprire la politica sull’immigrazione e sicuramente non darà corso al piano di Obama che mirava a concedere l’amnistia a 7 milioni di immigrati illegali già residenti in America.
Così come non promuoverà tutti i possibili accordi commerciali globali del tipo Trans-Pacific partnership (Tpp), ma al contrario, cercherà di rafforzare la tendenza che si è andata già delineando di restituire progressivamente nel Paese posti di lavoro, creati da imprese americane. Non cercherà di scatenare una guerra commerciale contro la Cina, ma cercherà di fare dei compromessi e di trovare delle mediazioni.
Quanto alle relazioni con la Russia, nel caso dell’elezione a Presidente di Hillary Clinton, sarebbero state come minimo condannate a una “stagnazione” e nel peggiore dei casi si sarebbero progressivamente deteriorate in una sorta di pericolosa escalation. La vittoria di Trump potrebbe dare la garanzia che un tale rischio di escalation venga scongiurato. Per la sua natura psicologica l’eccentrico ed estroverso Trump appare proprio agli antipodi dell’introverso e “chiuso” Vladimir Putin. Tuttavia, con questo tipo di persone, più aperte e sincere (persino quando esprimono giudizi estremamente contraddittori), risulta, a quanto sembra, più agevole comunicare a un ex colonnello del Kgb che non con tipi come Hillary Clinton. Sono in molti, e non solo in America, ma persino a Mosca, a considerarla “insincera” (per usare un eufemismo) e ipocrita. Inoltre, c’è il sospetto che sia stata proprio lei, quando era a capo del Dipartimento di Stato, a fomentare e a “finanziare” le azioni di protesta a Mosca nell’autunno 2011 e nella primavera 2012. E poi dopo le sue più che aspre dichiarazioni all’indirizzo della Russia e dello stesso Putin, rilasciate durante la campagna elettorale, che accusavano il Cremlino di “voler far saltare le elezioni” e di “voler insediare alla Casa Bianca la marionetta Trump”, non si capisce come Putin e la Clinton avrebbero potuto interagire pacatamente senza irritarsi reciprocamente. Con Trump non esistono precedenti del genere e si può partire da zero.
Trump in questo senso ricorda un po’ il “più grande amico europeo di Mosca”, Silvio Berlusconi. Ma d’altro canto è un uomo impulsivo e inesperto sul piano diplomatico. Potrebbe sorprendere “con delle uscite bizzarre” anche nei confronti dello stesso Presidente russo e Putin potrebbe “offendersi” a sua volta. E dal momento che le relazioni russo-americane continuano a essere condizionate come un tempo dai rapporti personali tra le prime cariche dei due Stati, ciò potrebbe provocare un rapido deterioramento della situazione, se si presta fede al principio che tra “l’amore e l’odio c’è solo un passo”. Oggi Putin è stato uno dei primi leader a telefonare a Trump per congratularsi con lui della sua vittoria. Ma era stato anche il primo a telefonare al Presidente Bush l’11 settembre del 2011 per esprimergli la sua solidarietà nella lotta al terrorismo e il suo cordoglio per le vittime degli attentati. Ma poi è arrivato il famoso “discorso di Monaco”, pieno di rammarico e delusione nei confronti dell’Occidente in generale e dell’America in particolare. Così oggi lo slogan di Trump “Facciamo tornare grande l’America”, non si sa in cosa potrebbe trasformarsi. Se il suo scoperto intento di mandare a quel paese il “neoisolazionismo” e porre fine all’ingerenza americana in tutto il mondo si consoliderà, ciò avrà ripercussioni positive anche sulle relazioni con Mosca.
Se Trump presterà fede alle sue dichiarazioni pre-elettorali, seppure non del tutto chiare, secondo cui l’America non deve immischiarsi nei problemi ucraini, né interessarsi più di tanto alla sorte della Crimea, questo sarà un forte vettore per un “reset” e una nuova distensione. Anche una cessazione della pressione Usa sull’Europa volta a impedirle di attenuare le sanzioni antirusse non sarebbe di scarsa importanza, sebbene Trump, anche volendolo, non potrebbe alleggerire o annullare le sanzioni così facilmente costretto a fare i conti con la maggioranza repubblicana, verso cui, malgrado la sua appartenenza al partito, non si è mostrato finora troppo obbediente, per non parlare poi dei democratici, presenti in entrambe le camere del Congresso. “In cambio” di una sospensione del sostegno a Kiev, Mosca potrebbe venire incontro a Washington sulla questione siriana. Se la Siria resterà in primo piano tra gli obiettivi della politica estera di Trump.Anche le sue dichiarazioni precedenti sul trasferimento del peso della responsabilità militare e finanziaria all’interno del blocco della Nato sugli alleati europei non possono certo dispiacere a Mosca. Tuttavia, è assai improbabile che persino Trump rinunci a sviluppare il sistema globale di difesa missilistica (Pro), che tanto preoccupa Mosca, essendo perfettamente in linea con la sua “retorica neoisolazionista”. In compenso, i progetti del neoeletto Presidente di riattivare l’estrazione del petrolio in Alaska potrebbe avere un effetto letale sull’economia della Russia poiché provocherebbe la caduta dei prezzi mondiali dei prodotti petroliferi, principale fonte dei suoi redditi derivanti dall’export.
Il neoeletto Presidente, malgrado l’“incognita” che per molti versi rappresenta, appare comunque una speranza per un “reset” delle relazioni tra la Russia e gli Stati Uniti. È indubbio che l’America di Trump avrà sull’arena internazionale un’immagine diversa da quella di Barack Obama e persino del suo predecessore George Bush.
Tutti i diritti riservati da Rossiyskaya Gazeta
Iscriviti
alla nostra newsletter!
Ricevi il meglio delle nostre storie ogni settimana direttamente sulla tua email