Disegno di Aleksej Iorsh
Il Partito democratico americano ha trovato un nuovo slogan per la propria campagna elettorale: “Trump è l’agente di Vladimir Putin”. Questo slogan però ha fatto in modo che, per la prima volta nella corsa alla Casa Bianca, l’eccentrico miliardario Donald Trump, candidato repubblicano, sia riuscito a ottenere un vantaggio sull’ex segretario di Stato Hillary Clinton.
Guidata dal principio che “tutti i metodi sono buoni per la vittoria, non importa quanto marci essi siano”, la leadership del Partito democratico ha cercato di trasformare la propria onta interna in un vantaggio elettorale.
Il discorso riguarda lo scandalo relativo alla fuga di notizie di Wikileaks sulla corrispondenza del comitato nazionale dei democratici, scoppiato proprio alla vigilia della convention del partito, dove si sarebbe dovuto nominare il candidato alla presidenza. È emerso (e dei sospetti già c’erano) che l’apparato del partito avrebbe truccato le primarie a favore di Hillary Clinton. Queste rivelazioni hanno costretto la presidente del comitato nazionale del partito Deborah Wasserman Schultz a presentare le proprie dimissioni.
E ora i democratici americani sostengono che dietro il furto degli hacker ci sarebbe lo zampino di Putin, facendo riferimento a gruppi di hacker russi che lavorerebbero o per i servizi segreti di Mosca o per un gruppo di spionaggio militare.
La teoria è presa in esame anche dall’Fbi e da importanti membri dell’amministrazione Obama. Durante un incontro in Laos alcuni giornalisti del pool del segretario di Stato John Kerry hanno rivolto la domanda al ministro russo degli Esteri Sergej Lavrov, ma sono stati respinti dallo stesso Lavrov che ha detto di non aver alcuna intenzione di “utilizzare una famosa parola inglese composta da quattro lettere”.
Allo stesso tempo lo stesso Presidente Obama si è fermato a un passo dal rivolgere accuse ufficiali contro Mosca. “Tutto è possibile”, ha detto Obama quando gli hanno chiesto se la Russia avrebbe potuto interferire nelle elezioni americane per influenzare gli elettori a favore di Trump. “Donald Trump più volte ha espresso la propria ammirazione nei confronti di Putin - ha aggiunto -. E credo che la Russia stia mettendo in buona luce la campagna di Trump”.
A quanto pare uno degli obiettivi principali della campagna elettorale Usa, a giudicare da questa logica, sarebbe quello di eleggere un Presidente che non piaccia a Putin. Come se l’America non avesse problemi più importanti.
Nemmeno Edward Snowden, dal suo asilo politico russo, ha potuto far finta di niente e ha ricordato a tutti che l’Agenzia per la sicurezza nazionale e la Cia dispongono di un programma chiamato XKeyscore, lanciato nel 2013, che serve a determinare il luogo di provenienza degli hacker. Questo programma era stato utilizzato anche dopo l’attacco della Corea del Nord al sito della Sony. Attualmente l’amministrazione Usa o si limita a fare allusioni oppure rivolge le proprie accuse a compagnie private specializzate in cyber-sicurezza.
In ogni caso, l’uso di qualsiasi strana arma contro Trump potrebbe avere conseguenze inaspettate per i democratici.
Innanzitutto, analisti politici con esperienza sanno che un’eccessiva “campagna negativa” e la calunnia possono avere un effetto boomerang: colui il quale viene dipinto come un mostro, prima o poi inizierà a guadagnare punti. Non si può infangare una persona così spudoratamente. E ora nei sondaggi Trump supera la Clinton del 3-5%.
In secondo luogo, come ha sarcasticamente fatto notare uno degli ideologi repubblicani conservatori Patrick Buchanan rispondendo alle accuse dei democratici, l’America “è stata la prima” a interferire nella politica di altri Paesi già all’epoca della Guerra fredda attraverso le Ong e attraverso altri metodi di intercettazione e sorveglianza via internet.
Inoltre Buchanan insiste sul fatto che se la Russia si fosse veramente introdotta nello scambio di mail dei democratici, allora dovrebbe ricevere il premio Pulitzer per il giornalismo per aver rivelato sporchi metodi di manipolazione e il tentativo di sovvertire elezioni oneste. Questo è esattamente ciò che aveva fatto il New York Times negli anni Settanta, quando aveva pubblicato documenti segreti delle amministrazioni Kennedy e Johnson relativi alla preparazione della guerra in Vietnam, rivelando provocazioni e metodi sporchi. Proprio per queste pubblicazioni il giornale aveva ottenuto il premio Pulitzer nel 1971. Perché quindi non premiare anche Putin, ha chiesto ironicamente Buchanan.E in un certo senso io mi trovo d’accordo con lui. Le 20.000 lettere del Partito democratico che Wikileaks ha pubblicato sostengono che Hillary Clinton abbia vinto le primarie in modo sporco. E Trump non ha niente a che vedere con tutto ciò. E nemmeno Putin.
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