Un cittadino sovietico poteva emigrare all’estero?

Soviet civil passport for traveling abroad, 1989.

Soviet civil passport for traveling abroad, 1989.

Yurij Zaritovskij/Sputnik
Spesso il governo sovietico usava l'emigrazione come un modo per punire i dissidenti. Negli ultimi anni dell’URSS, poi, l’introduzione dei visti di uscita non fece che complicare le cose…

Per l’intero arco della sua storia, lo Stato sovietico fece di tutto per controllare il fenomeno dell’emigrazione, che utilizzò un po’ con lo stesso principio del “bastone e la carota”: se in alcuni casi imponeva a certi cittadini di lasciare il Paese, in altri rendeva impossibile la vita a coloro che desideravano effettivamente partire.  

Il primo esodo

Tra la Rivoluzione russa e la successiva formazione del nuovo Stato sovietico fino al crollo dell’URSS, avvenuto nel 1991, si contano cinque diverse ondate di migrazione di massa. 

Con la nascita del nuovo Stato sovietico, formatosi ufficialmente nel 1922, si registrò una massiccia emigrazione di coloro che si erano opposti alla salita al potere del nuovo governo bolscevico, i cosiddetti Emigrati Bianchi.  

Il primo esodo fu contemporaneamente il più massiccio nella storia della Russia e il più devastante per lo Stato emergente, in senso economico e culturale: il numero di persone che fuggirono dal Paese dopo che l'Armata Rossa aveva definitivamente sconfitto i suoi avversari fu di circa 2 milioni di persone.

L'evacuazione dei Bianchi attraverso un porto della Crimea

Fra loro c’erano grandi menti, esponenti dell’intellighenzia russa, ufficiali militari, statisti, uomini d'affari, proprietari terrieri e intellettuali di ogni tipo, che scelsero di staccare il cordone ombelicale con la madrepatria. Molti di loro si reinventarono con successo in altri paesi. Il “padre dell'aviazione” Igor Sikorskij, per esempio, dopo aver lasciato l’URSS iniziò a progettare nuovi elicotteri per il presidente degli Stati Uniti.

Dopo questo massiccio esodo, le frontiere dell'Unione Sovietica si chiusero ermeticamente, rendendo l'emigrazione un sogno irraggiungibile per molti.

La nave della Croce Rossa Americana

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Dietro la cortina di ferro

Se nel primo periodo dopo la nascita dell’URSS era ancora possibile lasciare il Paese, lo Stato fu “sigillato” dal resto del mondo alla fine degli anni ‘20: da quel momento, agli occhi delle autorità sovietiche non vi erano più emigrati, ma solo disertori.  

Il manifesto recita:

Nel 1935 le autorità sovietiche, sotto la guida di Joseph Stalin, introdussero misure senza precedenti per sradicare l’idea stessa dell’emigrazione dalla mente del popolo sovietico. Secondo la nuova legge, la fuga oltre il confine veniva punita con la morte. Inoltre, secondo il diritto penale, anche i parenti dei disertori erano ritenuti responsabili.

Questa dura legge era rivolta soprattutto contro i politici di alto livello, i diplomatici e gli ufficiali dei servizi segreti - molti dei quali erano di stanza all'estero nell'esercizio delle loro funzioni - poiché la maggioranza della popolazione sovietica, anche se lo avesse voluto, non aveva i mezzi per fuggire dall'Unione Sovietica.

Nonostante le severe sanzioni, questo periodo della storia fu segnato da scandalose defezioni di figure chiave sia nell'establishment politico sovietico che nell'apparato di sicurezza. Il segretario personale di Stalin, Boris Bazhanov, fu il primo grande disertore dell'Unione Sovietica. A lui ne seguirono altri, come l'ufficiale dei servizi segreti sovietici Igor Gouzenko, le cui rivelazioni scatenarono un'ondata di paura rossa in Occidente, il famigerato sicario di Stalin Bohdan Stashynskij, il capo della polizia segreta sovietica in Estremo Oriente Genrikh Lyushkov, che fuggì a Tokyo prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite Arkadij Shevchenko, che chiese asilo all'ambasciatore americano e il famigerato doppiogiochista Oleg Gordievskij, che lavorò per i servizi segreti britannici MI6 prima di fuggire dall'URSS, nel 1985. 

Arkadij Shevchenko, il diplomatico sovietico che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, presta il giuramento di cittadinanza americana a Washington, 28 febbraio 1986

Alcuni disertori furono uccisi all'estero da agenti segreti sovietici, mentre altri vissero fino alla morte, spesso nell’eterna paura di rappresaglie. Nessuno di loro, comunque, ha mai più rivisto il proprio paese.

Dopo la morte di Stalin e il successivo annullamento della legge che criminalizzava le famiglie dei disertori, molte figure sovietiche di spicco preferirono non tornare in patria. Molti importanti atleti ed esponenti della cultura divennero i cosiddetti “non-tornanti”, termine usato per descrivere le persone sovietiche che rifiutarono di tornare in URSS da un viaggio all'estero.

Intrappolati in URSS

Quando l'emigrazione divenne finalmente legalizzata, tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, le persone di etnia prevalentemente non russa la videro come un'opportunità per lasciarsi per sempre alle spalle la realtà sovietica. 

Tuttavia, temendo un esodo di massa della popolazione, che avrebbe minato l’immagine del mondo socialista agli occhi di tutti, il governo sovietico impose il visto di uscita: sostanzialmente un permesso formale rilasciato dalle autorità per emigrare.

Un visto d'uscita sovietico del secondo tipo (che permette cioè di lasciare l'URSS in modo permanente)

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Nella pratica, per molte persone era impossibile ottenere questo visto: negli anni '70, il problema si fece talmente grave che emerse un nuovo termine per indicare coloro che si erano visti rifiutare il visto d'uscita: “Otkazniki” (letteralmente, “i rifiutati”).

Una protesta dei cittadini

In alcuni casi, le autorità portarono le persone a un livello di disperazione tale da spingerle a commettere atti spregevoli pur di trovare una via d'uscita dall'URSS.

“Non avevo quasi alcun dubbio che saremmo stati arrestati. Ma ho pensato che dopo aver scontato la mia pena, sarebbe stato più facile per me lasciare l'Unione Sovietica”, disse Eduard Kuznetsov, un ebreo che cercò di dirottare un aereo per fuggire dall'URSS, nel 1970.

Una foto segnaletica di Eduard Kuznetsov

Mentre alcuni aspettarono i loro visti di uscita per anni, altri si ritrovarono nella situazione opposta: alla fine degli anni '70, le autorità sovietiche privavano della cittadinanza alcuni cittadini mentre si trovavano in viaggio all'estero. Per esempio, il violoncellista Mstislav Rostropovich  e sua moglie Galina Vishnevskaja, cantante lirica, furono privati della loro cittadinanza sovietica mentre erano all'estero. 

Molto cambiò con la salita al potere di Mikhail Gorbaciov e l’avvio della perestrojka. Mentre aumentavano gli scambi scientifici e culturali con l'estero e i viaggi si facevano sempre più frequenti, anche le regole sull'emigrazione si allentarono.

Cittadini sovietici in fila fuori dall'Ambasciata USA a Mosca in attesa dei documenti necessari per lasciare l'URSS. 1990

Nonostante il grado di liberalizzazione, tuttavia, il principio di base rimase lo stesso: i cittadini sovietici che volevano emigrare dall'Unione Sovietica dovevano prima assicurarsi un visto d’uscita. Solo dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nel 1991, i russi furono liberi di emigrare liberamente.

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