Come nota lo storico Viktor Zemskov, nel 1953 (l’anno della morte di Stalin) in Unione Sovietica c’erano 5,4 milioni di persone in carcere. Il numero totale di sovietici finiti in prigionia durante il lungo regno di Stalin (1924-1953) è dunque comprensibilmente molto più alto. Tra tutti quelli che hanno dovuto subire l’inferno del Gulag abbiamo scelto sei persone ricordate per le loro carriere eccezionali.
Il capitano Solzhenitsyn fu arrestato nel 1945 mentre prestava servizio nell’esercito sovietico per aver criticato Stalin in alcune lettere private. All’inizio, essendo un matematico, lavorò nelle sharashka, i laboratori segreti per prigionieri, dove le condizioni erano relativamente sopportabili. Ma lo mandarono presto nei campi di lavoro del Kazakistan, dove fu testimone di ingiustizie e violenze.
Dopo che Nikita Khrushchev denunciò il culto della personalità di Stalin nel 1956 e iniziò la critica del periodo della Repressione, Solzhenitsyn fu riabilitato: la commissione di Stato concluse che non aveva commesso alcun crimine esprimendo la sua opinione su Stalin nelle sue lettere, e lui poté tornare a Mosca. Nel 1962, riuscì a pubblicare la prima testimonianza in assoluto di un prigioniero che era stato in un lager dell’Urss: “Una giornata di Ivan Denisovich” che scioccò il mondo e, alla fine, portò il comitato del Nobel a dare a Solzhenitsyn il Premio per la Letteratura nel 1970.
L’autore continuò con la sua lotta per rivelare la verità, preparando un gigantesco lavoro sulle storie e le realtà dei campi, “Arcipelago Gulag”. Dopo anni di oppressione, le autorità lo costrinsero a lasciare l’Unione Sovietica nel 1974. Tornò solo vent’anni dopo. Per saperne di più su Solzhenitsyn, leggete qui.
Altro scrittore sopravvissuto al Gulag, che ha descritto la natura inumana del sistema di reclusione sovietico, Shalamov ha raffigurato mondi ancora più cupi di quelli di Solzhenitsyn. Dopotutto, ha trascorso 14 anni nel sistema del Gulag, venendo condannato tre volte, con l’accusa di essere un membro di un’organizzazione trotskista. Trascorse la maggior parte del tempo alla Kolymà, una remota regione dell’Estremo Oriente, famosa per i suoi campi di lavoro in cui i prigionieri dovevano estrarre oro e altri metalli in un clima terribile, con inverni a -40 ºC.
“I racconti di Kolyma”, una raccolta di racconti sulla vita nei Gulag, rimane uno dei libri più terrificanti della letteratura russa, che mostra la vita ridotta alla sopravvivenza, il degrado morale, le persone che si trasformano in animali a causa del freddo, della fame e dei lavori forzati. “Il lager è una scuola di vita negativa, in tutto e per tutto, sotto ogni aspetto. Nessuno ne trarrà mai qualcosa di positivo o di utile”, conclude Shalamov. Per altri brani di Shalamov, leggete qui.
Quando Mandelshtam, uno dei più importanti poeti del ventesimo secolo, scrisse il celebre “Epigramma di Stalin” nel 1933, il suo compagno poeta Boris Pasternak lo definì “un atto suicida”. In effetti, questi versi, negli anni Trenta, quando Stalin era onnipotente, suonavano suicidi:
Viviamo senza più fiutare sotto di noi il Paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono esatte le sue parole come i pesi d’un ginnasta.
Se la ridono i suoi occhiacci da blatta
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone;
lui, lui solo, mazzapicchia e rifila spintoni.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
cuccagna ed un ampio torace di osseta.
“Il montanaro del Cremlino” non la prese bene. Tra il 1934 e il 1937 Mandelshtam fu esiliato a Voronezh (540 km a sud di Mosca), quindi tornò a Mosca ma fu nuovamente arrestato. Fu condannato a cinque anni in campi di lavoro in Estremo Oriente per “propaganda antisovietica” e morì di tifo mentre era in un campo di smistamento. Per conoscere meglio Mandelshtam, leggete qui.
Lo scienziato Korolev è un’icona per ogni russo che lavora nel settore spaziale. Fu lui il responsabile del programma spaziale sovietico, che rese l’Urss una superpotenza spaziale, lanciando il primo satellite artificiale in orbita e poi mandando il primo uomo nello spazio nel 1964, Jurij Gagarin. Tutto ciò non sarebbe accaduto se Korolev fosse morto nel Gulag, dove era stato imprigionato diversi anni prima.
Nel 1938, le autorità arrestarono Korolev e lo condannarono a dieci (in seguito ridotti a otto) anni nei campi di lavoro per “sabotaggio”. Trascorse un anno alla Kolyma, sopravvisse alle torture e alle condizioni infernali. Poi, nel 1940, fu trasferito a lavorare in un laboratorio segreto con altri scienziati privati dei loro diritti. Korolev ha lavorato a missili e progetti spaziali negli anni Cinquanta, ma solo nel 1957 è stato completamente riabilitato.
Genetista e botanico che ha viaggiato in tutto il mondo (a eccezione di Australia e Antartide), Vavilov studiò le piante e le loro caratteristiche, lavorando poi all’Istituto per l’industria delle piante, migliorando i raccolti di grano, mais e altre colture, dedicandosi completamente alla scienza e all’Urss. Tuttavia, questo non lo salvò dal Grande Terrore degli anni Trenta. La genetica, che studiava, era considerata una “pseudoscienza borghese” da Stalin, e quindi la punizione era dietro l’angolo.
Arrivò nel 1940, quando iniziò per lui una lunga serie di interrogatori e torture: fu costretto a “confessare” non solo il sabotaggio, ma anche la creazione di un partito contadino segreto (che era inesistente). Condannato a morte, Vavilov in seguito fu testimone della “misericordia”: nel 1942, il Presidium del Soviet supremo dell’Unione Sovietica sostituì la pena di morte con 20 anni nei campi di lavoro. L’anno seguente, Vavilov morì in prigione, e avrebbe poi ottenuto la completa “riabilitazione” postuma solo nel 1954. La sua ricerca “anti-scientifica” finì per contribuire enormemente al campo della genetica.
Prima di diventare un famoso attore sovietico, Zhzhonov trascorse 14 anni tra prigioni, campi di lavoro ed esilio, sei dei quali alla Kolyma, sopravvivendone a malapena. “Non avevo illusioni, non avevo fiducia nella giustizia o nella legge… era una lotta di ogni secondo per la sopravvivenza, la sopravvivenza fisica”, ha ricordato nelle interviste. Qual era il suo “crimine”? Durante un viaggio di lavoro per una tournée, il ventitreenne Zhzhonov aveva incontrato in treno un diplomatico americano e gli aveva parlato per una mezz’ora.
Dato che suo fratello maggiore, Boris, era stato arrestato per “attività antisovietiche”, Zhzhonov aveva poche possibilità di un processo equo. Fu condannato per “spionaggio” e mandato in un Gulag. Riuscì a sopravvivere e a costruire una carriera di successo nel cinema dopo la riabilitazione. Ma non perdonò mai Stalin e il suo regime crudele.
Dai campi di concentramento alle Olimpiadi: le vite ritrovate degli ex prigionieri di guerra
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