I romanzi di Fjodor Dostoevskij (1821-1881) riscattano la realtà e ridefiniscono la vita. Se ne portate uno con voi su un’isola deserta, potete non preoccuparvi: avrete abbastanza spunti di riflessione per gli anni a venire! Con un’intensità e una chiaroveggenza degne di William Shakespeare e Sigmund Freud, Dostoevskij è penetrato negli angoli più oscuri del decadimento morale, della povertà e della crisi umana. Dostoevskij non ha eguali quando si tratta della rappresentazione dell’inferno russo. Era un implacabile rivelatore di corruzione morale, immaturità e ipocrisia.
1 / “Delitto e castigo”
Il personaggio principale di “Delitto e castigo” è un nuovo tipo d’uomo, tutto preso da idee nichilistiche. Rodion Raskolnikov è un giovane moralmente ambiguo, che si permette di versare “sangue secondo coscienza”. “Sono una creatura tremante o ne ho il diritto?” (in russo: “Тварь я дрожащая или право имею?”), si chiede senza tante cerimonie, cercando di capire se è “un pidocchio, come tutti gli altri, o un essere umano”. Alla fine il ventitreenne uccide con un’ascia una vecchia signora che presta soldi, per fare il suo esperimento morale. Col senno di poi, il suo crimine si rivela peggiore dell’incubo più inquietante.
Dostoevskij non ha mai cercato di compiacere la folla. Era un vero originale che ha spinto i confini del genere, e anche delle aspettative e ambizioni umane. “Delitto e castigo” è il romanzo poliziesco più perfetto di Dostoevskij, con un tocco psicologico. Sappiamo fin dall’inizio chi ha ucciso chi, dove, quando, perché e anche come. Eppure, la domanda da un milione di dollari è quali sono le conseguenze esistenziali del crimine e come conviverci. Dostoevskij è convinto che senza farsi strada tra tentazioni e terribili disagi, senza scontrarsi con gli assoluti morali, sia impossibile pentirsi. Un uomo, secondo Dostoevskij, non è qualcuno dotato di ragione e logica, ma uno che va deliberatamente fuori di testa. Lo scrittore nutriva la speranza che Raskolnikov potesse espiare il suo peccato. “Diventate un sole e tutti vi vedranno. Un sole, prima di tutto, dev’essere un sole”, dice Porfirij Petrovich, incoraggiante. Per Dostoevskij, il perdono è possibile attraverso la sofferenza.
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2 / “I fratelli Karamazov”
Nessuno ha mai padroneggiato l’arte di porre domande su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato meglio di Dostoevskij. E quelle “domande maledette” sono quelle che davvero rompono il ghiaccio. “Cos’è l’inferno? Ritengo che sia la sofferenza di non essere in grado di amare”, scrive Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”, il suo ultimo romanzo con una trama da giallo (chi ha ucciso il vecchio padre?), ma dove i temi trattati con grande profondità sono fede, libertà e famiglia.
Dostoevskij scruta l’anima di ogni personaggio, che si tratti del terribile Fjodor Karamazov o dell’emotivamente instabile Mitja Karamazov, dipingendo un ritratto piuttosto cupo dell’uomo russo. Perché i personaggi di Dostoevskij subiscono trasformazioni metafisiche rivoluzionarie solo quando si trovano in condizioni estreme, tra la vita e la morte, in caduta libera morale? Forse, perché solo in questo momento decisivo finalmente si guardano onestamente per la prima volta per produrre un grido di disperazione.
Lo scrittore possedeva una mente “forense” e usava gli “istinti di base” e le debolezze dei suoi personaggi per spiegare la natura metafisica del mondo. Ne “I fratelli Karamazov”, un romanzo ben scritto con una splendida trama poliziesca, Dostoevskij esplora le sfaccettature etiche di una famiglia russa disfunzionale. Franz Kafka, grande fan de “I fratelli Karamazov”, ha definito Dostoevskij suo “parente di sangue” e non senza motivo. Nonostante siano russi al cento per cento, i personaggi di Dostoevskij sono universali in quanto pieni di angoscia, malizia e miseria, e sono determinati a passare attraverso l’inferno emotivo nella loro inarrestabile ricerca di libertà morale e fede. È un vero peccato che Dostoevskij sia morto avendo scritto solo la prima (e più piccola) parte de “I fratelli Karamazov”, che si sarebbe dovuto comporre di due parti.
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3 / “L’idiota”
I romanzi di Dostoevskij ricordano un cielo che si prepara per un’inevitabile tempesta. Quindi, non aspettatevi un lieto fine alla Hollywood. Le persone più vulnerabili della società sono quelle che lo affascinano di più. Dà voce ai poveri, ai malati e agli emarginati. Ne “L’idiota”, lo scrittore esplora l’amore e la pietà, l’orgoglio e la viltà, la generosità e la gentilezza. “La compassione costituisce la più fondamentale, forse l’unica legge esistenziale di tutta l’umanità”, afferma Dostoevskij nel romanzo.
Il principe Lev Nikolaevich Myshkin, il protagonista principale, è un uomo senza futuro, un epilettico che è troppo gentile, ingenuo e ridicolmente infantile per sopravvivere nella Russia imperiale. Come la giovane gazzella è cibo per i predatori, il principe Myshkin è “un idiota”, condannato fin dall’inizio, in un mondo che appartiene a chi ha tanto pelo sullo stomaco, come Parfjon Rogozhin.
Come ha sottolineato lo stesso Dostoevskij, nientemeno che Gesù Cristo e Don Chisciotte hanno “ispirato” lo scrittore nel creare il suo principe Myshkin. Dostoevskij sapeva sicuramente come scegliere i suoi modelli. Anche alcuni tratti autobiografici sono associati all’immagine del principe Myshkin, uno dei personaggi più amati dall’autore, che ha persino “ereditato” l’epilessia da Dostoevskij. A parte questo, quando Lev Nikolaevich inizia una conversazione sulla pena di morte in Europa e in Russia, descrive a fondo i sentimenti di una persona che ha rischiato l’esecuzione. È interessante notare che è quello che aveva sperimentato lo stesso Dostoevskij! Nel 1849, lo scrittore fu arrestato per il suo coinvolgimento nel Circolo Petrashevskij, un gruppo di intellettuali radicali di San Pietroburgo che criticavano il sistema socio-politico dell’Impero russo e discutevano dei modi per cambiarlo. Nel 1850, il ventottenne Dostoevskij (che a quel tempo aveva già pubblicato due romanzi, “Povera gente” e “Il sosia”) fu condannato a morte insieme ad altri 20 membri del movimento giovanile. Per un sadico gioco, la sentenza fu commutata all’ultimo minuto, quando lo scrittore era già sul patibolo. Questa esperienza fu uno choc enorme e rimase un ricordo indelebile per tutta la vita di Dostoevskij.
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4 / “I demoni”
“I demoni” è un potente romanzo sulla tentazione diabolica di rinnovare il mondo, sulla possessione demoniaca da parte delle forze del male e della distruzione. Dostoevskij ha predetto la diffusione del nichilismo, del caos e dell’odio. Lo scrittore, che aveva trascorso quattro anni di duro lavoro in una prigione siberiana, si mostrò anche profetico, parlando di una futura società dominata dalla spionaggio, dove “ogni membro della società sorveglia l’altro ed è obbligato alla delazione. Ciascuno appartiene a tutti, e tutti appartengono a ciascuno. Tutti sono schiavi, e nella schiavitù sono uguali. Nei casi estremi, c’è la calunnia e l’omicidio, ma l’essenziale è l’uguaglianza”. E ancora: “È necessario solo il necessario, ecco il motto del globo terrestre da ora in avanti. […] Ma gli schiavi devono avere dei dirigenti. Piena obbedienza, piena impersonalità….”
Dostoevskij era un uomo profondamente religioso, un cristiano ortodosso, che invocava il nome di Dio nelle sue opere a ogni piè sospinto. “Dio mi è necessario se non altro perché è l’unico essere che si possa amare in eterno…”, scrive Dostoevskij ne “I demoni”. L’immagine di un “demone affascinante” è stata creata da Dostoevskij con abilità artistica insuperabile. Nikolaj Stavrogin ha una mente eccezionale e un’anima ferita. È un antieroe, un uomo dai mille volti, uno psicopatico, un manipolatore e un donnaiolo seriale. Il filosofo russo Nikolaj Berdjaev considerava Stavrogin il personaggio immaginario “più misterioso” della letteratura mondiale.
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5 / “Memorie dal sottosuolo”
Nel 1863, Dostoevskij scrisse quello che sembra essere il primo romanzo esistenzialista, “Memorie dal sottosuolo”, il cui narratore imposta il suo tono straordinariamente acido fin dal paragrafo iniziale. “Io sono una persona malata… sono una persona cattiva. Io sono uno che non ha niente di attraente. Credo d’avere una malattia al fegato. Anche se d’altra parte non ci capisco un’acca della mia malattia, e non so che cosa precisamente ci sia di malato in me.”
Il principale filologo russo del XX secolo, Mikhail Bakhtin, definì questo modo di parlare dostoevskiano “parola con scappatoia” (“cлoвo c лaзeйкoй”): “Per esempio, l’autodeterminazione confessoria con scappatoia (la forma più diffusa in Dostoevskij) nella propria intenzione è l’ultima parola su di sé, la determinazione definitiva su di sé, ma in effetti essa conta interiormente su un’opposta valutazione di sé data in risposta da un altro. Chi umilia e condanna sé stesso, in effetti vuole soltanto provocare la lode e il complimento dell’altro. Condannando se stesso, egli vuole ed esige che l’altro dissolva la sua autodefinizione, e si lascia una scappatoia…”.
Questo libro è una confessione di un ex funzionario di San Pietroburgo e una storia filosofica sull’essenza della vita umana; un racconto tragico sulla natura dei nostri desideri e un dramma sul rapporto malato tra ragione e inazione. L’uomo del sottosuolo, privo di nome e cognome, discute con i suoi avversari immaginari e reali e riflette sulle ragioni delle azioni umane, del progresso e della civiltà. Paranoico, patologico, patetico, povero, è un solitario che ha paura di essere scoperto. Dopo aver letto “Memorie dal sottosuolo”, Friedrich Nietzsche (1844-1900) disse di Dostoevskij: “È l’unico psicologo da cui ho qualcosa da imparare”.
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