Trent’anni fa, nell’aprile del 1991, usciva nei cinema uno degli ultimi film sovietici, “Disperso in Siberia” (titolo originale russo: “Затерянный в Сибири”; “Zatérjannyj v Sibìri”; in inglese: “Lost in Siberia”) del regista Aleksandr Mittà (1933-). In esso gli spettatori potevano vedere sullo schermo come funzionava il famigerato sistema repressivo sovietico del Gulag.
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La pellicola (una coproduzione Urss-Gran Bretagna) racconta la storia dell’archeologo britannico Andrew Miller (interpretato da Anthony Andrews). Alla fine della Seconda guerra mondiale era impegnato in alcuni scavi nel nord dell’Iran. Scambiato erroneamente per una spia americana, i servizi segreti sovietici lo rapirono e lo portarono a Mosca. Presto il britannico venne spedito in un remoto campo siberiano.
Nelle insopportabili condizioni delle baracche convivono criminali comuni recidivi a fianco dei “nemici del popolo”, cioè detenuti politici, molti dei quali sono finiti qui solo perché calunniati, perché hanno detto una parola di troppo o, ad esempio, perché hanno osato, anni addietro, innamorarsi di una ragazza tedesca.
Sotto la costante minaccia di morte, sopportando l’atteggiamento bestiale delle guardie, Miller cerca di restare umano e di non trasformarsi in un mostro come i ladri e degli assassini (e le stesse guardie) che lo circondano dietro al filo spinato.
Il regista, Aleksandr Mitta, è entrato nella storia del cinema mondiale creando capolavori come “Drug moj, Kolka!” (“Друг мой, Колька!”; ossia “Amico mio, Kolka!”; 1961), “Skaz pro to, kak tsar Pjotr arapa zhenil” (“Сказ про то, как царь Пётр арапа женил”; ossia “Storia di come lo zar Pietro fece sposare il suo arapo”; 1976) e “Atterraggio zero” (titolo originale russo: “Экипаж ”; “Ekipazh”; ossia “Equipaggio”; 1979). “Disperso in Siberia”, basato sui ricordi dei prigionieri nei campi di detenzione, era per lui anche una storia personale e familiare.
“La mia famiglia ha avuto molto a che fare con questo argomento”, ha detto il regista. “La mamma ha trascorso dieci anni a Magadan e alla Kolymà, e anche la linea paterna della famiglia è stata colpita dalla repressione, anche se mio padre non è stato imprigionato. Eppure per molti anni sembrò il candidato ideale per finire in un campo: si era formato in America, studiando l’arte della placcatura dei metalli, e poteva quindi essere facilmente accusato di spionaggio, per il solo fatto di essere stato all’estero, come era consuetudine allora”.
Per l’immagine della ragazza Lilka, che vive vicino al campo e da sola si prende cura del padre gravemente malato, Mitta si ispirò a sua moglie. Anche Lilija Majorova, infatti, all’età di dieci anni era dovuta diventare la principale fonte di sostentamento della famiglia e, vendendo torte al mercato, sostenne i suoi genitori non più in grado di badare a se stessi.
Il tema del gulag e della repressione iniziò a penetrare lentamente nel cinema sovietico negli anni finali della storia dell’Urss. Così, nelle serie tv in sette puntate del 1980-81, realizzata nella Repubblica Socialista Sovietica Lettone, “Dolgaja doroga v djunakh” (“Долгая дорога в дюнах”; ossia “La lunga strada sulle dune”; titolo in lettone: “Ilgais ceļš kāpās”), popolare in tutta l’Urss, gli spettatori videro insediamenti speciali siberiani, dove i lettoni al confino dovevano tagliare la legna, accusati di collaborazionismo con i tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, e condannati ingiustamente.
Tuttavia, è stato “Disperso in Siberia” il primo (e, come si è scoperto, l’ultimo) film sovietico a mostrare gli orrori del Gulag con la massima franchezza. Ma, nel 1991 erano tempi turbolenti nell’Urss che stava crollando, e la gente aveva poca voglia di andare al cinema. In pochi videro il film in Russia.
In Occidente, tuttavia, la pellicola di Aleksandr Mitta riscosse un maggiore interesse. Dopo l’uscita in Gran Bretagna, ricevette una nomination negli Usa ai Golden Globe come miglior film in lingua straniera (ma il premio andò poi al film tedesco-polacco-francese di Agnieszka Holland, “Europa Europa”).
“‘Lost in Siberia’ può forse non soddisfare gli standard di attrattiva commerciale di alcuni distributori cinematografici americani”, scrisse il “Los Angeles Times” nel 1991, “Ma il merito che non può essergli tolto, oltre al fatto di essere una storia forte con un attore occidentale convincente nel ruolo di protagonista, è il suo coraggio, la tempestività e la veridicità. Questa è una storia sulla perdita della libertà, e sul vuoto disperato della vita senza libertà”.
Perché bisogna assolutamente visitare il Museo di storia dei Gulag
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