In una delle commedie sovietiche più popolari, “Crociera di lusso per un matto”, film del 1968 del regista Leonid Gajdaj (il titolo russo è “Brilljantovaja rukà”, “Braccio di brillanti”), un furfante e il protagonista della pellicola stanno pranzando con un uomo proveniente dalla regione della Kolymà. Quest’ultimo (qui potete godervi la scena), al momento del commiato dice: “Ci vediamo da me alla Kolyma”, al che il malvivente, interpretato dalla leggenda del cinema Andrej Mironov (1941-1987), dopo essersi fatto andare di traverso quello che beveva, risponde: “No, no, meglio che venga lei da noi!”.
Non è strano che il poco di buono interpretato da Mironov voglia tenersi alla larga dalla Kolyma, questa regione al Nord del Lontano Oriente russo è stata associata per decenni a prigioni, gulag e lavori forzati. E purtroppo non furono solo dei criminali comuni a finirvi. Negli anni Trenta, al culmine della repressione staliniana, migliaia di innocenti furono deportati qui sulla base di false accuse e patirono le atroci sofferenze dei campi di lavoro.
La febbre dell’oro
La Kolyma è un posto estremamente remoto anche per gli standard di un Paese gigantesco come la Russia; oltre 10 mila chilometri ad est di Mosca. Fino alla fine del XIX secolo queste terre erano molto poco popolate. Vivevano qui solo alcune popolazioni indigene, non molto numerose: tra cui i ciukci e gli eveni.
Tutto è cambiato quando scienziati ed esploratori hanno capito che queste aree sperdute nascondevano una grande ricchezza. Uno specialista, Eduard Anert, ai tempi della Guerra civile russa seguita alla Rivoluzione del 1917, affermò che le risorse d’oro della regione della Kolyma erano pari ad almeno 3.800 tonnellate. La supposizione era audace, ma il tempo ha dimostrato che Anert aveva ragione: la Kolyma è ricchissima d’oro.
Dopo la spedizione del geologo sovietico Jurij Bilibin del 1928, fu chiaro che il sottosuolo di questa regione custodiva più oro di tutto il resto del territorio dell’Urss messo assieme. Intanto le turbolenze seguite alla rivoluzione e alla guerra civile erano finite e si poteva iniziare a lavorare per entrare in possesso di tutto quell’oro. Incomincia così la storia dei gulag della Kolyma.
L’impero del Dalstroj
Tecnicamente parlando, qui non bisognerebbe parlare di Gulag. Se in generale per gulag intendiamo il campo di lavoro forzato, Gulag in Unione Sovietica era la sigla per “Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovych lagerej”, “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi” e si trattava di un reparto della polizia. Ma per rendere i lavori dell’estrazione d’oro in questa zona il più possibile efficienti, nel 1931 Stalin creò addirittura una speciale struttura, che governava i campi di lavoro della Kolyma, il Dalstroj, il Trust statale per la costruzione stradale e industriale nell’area settentrionale della Kolyma (dal 1952 in poi: Direzione principale dei campi e della costruzione dell’Estremo Nord).
Questo trust statale aveva il compito di estrarre oro, stagno, tungsteno e allo stesso tempo di costruire le infrastrutture in questa zona isolatissima. Fin dall’inizio le autorità utilizzarono prigionieri condannati ai lavori forzati, perché sarebbe stato ben difficile convincere persone libere a trasferirsi a lavorare nella selvaggia e freddissima Kolyma, dove mancava qualsiasi infrastruttura e anche villaggi e città andavano tirati su da zero. La prima mandata di prigionieri arrivò qui nel novembre del 1932 e non uno degli undicimila uomini riuscì a sopravvivere al primo inverno. Morirono anche le guardie che li sorvegliavano e i cani. Solo nel 1934 il Dalstroj riuscì a stabilire condizioni, seppur durissime, almeno di minima sopravvivenza.
Un inferno per i prigionieri
Le autorità ottennero quello che volevano. L’industria aurifera della Kolyma, partita da zero nel 1932 cresceva anno dopo anno e nel 1940 raggiunse il picco delle 80 tonnellate annue. Questo successo si ebbe a spese dei prigionieri, il cui numero aumentò progressivamente. Nel 1940 erano ormai 190 mila gli uomini costretti a lavorare e morire di fame e freddo per “riottenere la fiducia della società”. C’erano sia criminali comuni che prigionieri politici, e questi ultimi avevano vita più dura dei primi.
Varlam Shalamov (1907-1982), lo scrittore sovietico che passò oltre 14 anni in questi lager, ha scritto nel capolavoro “I racconti della Kolyma” (edito in Italia da Einaudi e da Adelphi): “Il capo è rozzo e crudele, l’educatore bugiardo, il medico disonesto, ma tutto questo è nulla a paragone con la forza corruttiva dei criminali. I primi sono pur sempre uomini e ogni tanto qualcosa di umano affiora in loro. I malavitosi no. Non sono uomini. […] Il lager è una scuola di vita negativa, in tutto e per tutto, sotto ogni aspetto. Nessuno ne trarrà mai qualcosa di positivo o di utile. […]Ogni minuto della vita nel lager è un minuto avvelenato.. (Potete leggere altri stralci dal libro qui).
La chiusura dei lager
La storia tristemente nota dei campi di lavoro della Kolyma finì solo dopo la morte di Stalin, nel 1953. Entro quell’anno la gran parte delle risorse aurifere della regione erano state sfruttate e non c’era più bisogno di deportare così tante persone in quella zona. E inoltre, con la destalinizzazione, non si ebbe più una repressione su così vasta scala.
Nel 1957 il Dalstroj venne sciolto e i campi di lavoro forzati furono chiusi. Il tempo è passato e la regione di Magadan, a poco a poco, è diventata una zona come tante altre in Russia, anche se con un terribile passato.
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