Quando volano le cicogne (1957)

Una scena tratta dal film (Foto: Itar-Tass)

Una scena tratta dal film (Foto: Itar-Tass)

L'abisso della guerra che emerge e poi scompare. Dopo aver segnato un'intera generazione. Nel capolavoro di Mikhail Kalatozov

Lo stormo a V di gru che attraversa il cielo di Mosca. L'inquadratura che resta ferma mentre Vera e Boris saltellano, allegri, verso la Piazza Rossa, mano nella mano, all'inizio della propria vita insieme. Poi la guerra, e la crepa creata dal secondo conflitto mondiale che corre lungo le vite, le coscienze, che ingrigisce sicurezze e abitudini, progetti e desideri. La spensieratezza cancellata dalla violenza cieca. Poi la lotta per ritrovare ragioni sufficienti per vivere nonostante le macerie, reali e metaforiche. È una fenomenologia della ricostruzione, quella che nel 1957 Mikhail Kalatozov propone al pubblico mondiale nel suo “Quando volano le cicogne”. E mai titolo fu tradotto così male dai produttori italiani: nel film gli uccelli che volano su Mosca sono, appunto gru e non cicogne.

Quando volano le cicogne” non è solo il capolavoro di Kalatozov, l'opera somma di un formidabile regista. Ma è un gesto estetico in grado di cancellare, in un'ora e trenta minuti, tutta la teoria e la prassi del cinema ispirato al Realismo Socialista. Niente più solo ricerca dell'obiettività, non più solo propaganda al servizio del partito e della costruzione dell'immagine internazionale dell'Unione Sovietica.

A farla da padrone è la ricerca di una cinematografia pura, di una scrittura del movimento attraverso le immagini: con la camera che si muove prima sfiorando le vite dei personaggi, poi entrando nei loro drammi, come una sonda in grado di restituire allo spettatore dubbi e dolori, speranze e abbandoni: la profondità di campo realista che restituiva vastità paesaggistiche applicata alla trama esistenziale dei protagonisti. Un film definito come “Frutto del disgelo”: Krusciov era al potere da quattro anni e la destalinizzazione arrivava anche a toccare i territori della settima arte.

E pur essendo un “film di guerra”, Kalatozov non mostra neanche una battaglia, neanche uno scontro. La Seconda Guerra Mondiale è il pretesto: a interessarlo, piuttosto, sembrano essere gli effetti della guerra, quel conflitto dentro il conflitto che annerisce vita dopo vita, che mangia, vorace, speranza dopo speranza. Un percorso verso l'abisso, restituito anche attraverso la scelta delle ambientazioni: dal cielo infinito della primavera moscovita ai tunnel sotterranei stipati di persone che cercano riparo dai bombardamenti, dalle rive aperte e luminose della Moscova dove Vera e Boris s'incontrano fino alla Siberia glaciale dove, in un gioco di specchi che come un movimento interno innerva tutto il film, Boris e Vera sono lontani, senza possibilità di rivedersi. Dalla comunione alla separazione.

Centrale, la figura di Vera, interpretata da Tatiana Samojlova. Anche qui: la retorica realista è messa semplicemente alla porta. Niente “esempi costruttivi”, la donna non è l'incarnazione della coerenza di valori e principi dello stato socialista. Vera e scissa, dubbiosa, ricca di contraddizioni, in bilico, perennemente sospesa tra fedeltà al proprio amore lontano e il lasciarsi trasportare dagli eventi che vanno, semplicemente, in un'altra direzione. Perde uno dopo l'altro tutti i punti di riferimento. E solo alla fine troverà davanti a sé una laica possibilità di redenzione. Certo, a volte si sfiora il melodramma e la trama non è particolarmente originale. Ma Kalatozov riesce comunque a infondere nei suoi personaggi una forza espressiva fuori dal comune.

Palma d'Oro a Cannes nel 1958, il film è entrato nei manuali di storia del cinema anche per gli esperimenti tecnici di Kalatozov e di Sergej Urusevskij, il suo operatore. Piani sequenza da brividi, la camera a spalla che segue le folli corse dei protagonisti, le carrellate magistrali. Poi l'enfasi mai barocca sui dettagli: dallo scoiattolino di Vera al ticchettio dell'orologio che segnala l'avanzare inesorabile di un tempo doloroso, privo di speranza. E quelle parole di Masha, dalle Tre Sorelle di Cechov - “Gli uccelli migratori, le gru, volano, volano" – che ritornano come un amuleto, per ricordare quei cicli, composti da dolore e speranza, che compongono l'esistenza.     

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