La statua di Gogol a Villa Borghese, Roma (Fonte: wikipedia.org)
“Io posso scrivere della Russia solo stando a Roma. Solo da lì essa mi si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità”. Queste sono le parole iscritte sul piedestallo di una statua in bronzo di Nikolaj Vasilevich Gogol (1° aprile 1809 - 4 marzo 1852) a Villa Borghese, a Roma, opera dello scultore georgiano Zurab Tsereteli.
Infatti fu a Roma che il grande scrittore russo scrisse la maggior parte – la parte più intensa e profonda – del suo capolavoro, Le anime morte. Un capolavoro che avrebbe portato alla luce tutti gli atteggiamenti grotteschi del popolo russo raccontando la storia di Cicikov, un assessore collegiale che vuole acquistare i deceduti servi della gleba non ancora registrati nell’annuale censimento per poi ipotecarli e comprarsi dei grossi possedimenti.
È una satira che immortalò la palude psicologica e l’abissale degenerazione etica dei pigri e meschini proprietari terrieri, mediocri funzionari statali e spaesati contadini, tutti sparpagliati su una tetra e sconfinata provincia; un’opera d’avanguardia che avrebbe spinto il poeta Aleksandr Pushkin, amico e mentore di Gogol, a dire, dopo aver ascoltato l’autore leggere il manoscritto, “Dio mio, com’è triste la nostra Russia”.
Ma come mai questo immenso affresco della depravazione e desolazione della terra natia fu creato a Roma, la città più esuberante, più soleggiata, più dinamica del mondo? Una metropoli che sembra capace di sconfiggere la morte - sia quella fisica sia quella morale – con il suo epiteto di “Città Eterna”. Quale arcano meccanismo spirituale ha trasportato l’anima di Gogol nella sua cupa e amorfa Russia mentre viveva nella capitale italiana, da dove poteva descrivere il gioioso barocco di chiese e palazzi marmorei, la vivacità delle fontane inesauribili e la carica esplosiva del popolo romano? In realtà aveva tentato di farlo con il frammento Roma, ma fu un’opera trascurabile, di minimo valore artistico.
Che cosa vedeva con il suo occhio interiore quando usciva da casa - che si trovava in Via Sistina, a quel tempo Via Felice, dal nome secolare di Papa Sisto V (Felice Peretti) – e s’indirizzava verso la Chiesa della Trinità dei Monti, dove si appoggiava al parapetto e ammirava la strepitosa bellezza di scalinata e piazza sottostanti, fissando poi la lontana, serena cupola della Basilica di San Pietro, l’epicentro della Cristianità?
A San Pietroburgo, dopo la pubblicazione de Le anime morte nel 1842, Gogol diceva che il libro era solo il primo volume di una moderna Divina Commedia russa, ossia la cantica dell’Inferno, dopo di che lui avrebbe migliorato e purificato Cicikov nella cantica del Purgatorio, per elevarlo alla fine - con tutta la nazione - al più alto cielo del Paradiso, dove la sua redenzione avrebbe risplenduto in un’aura di massima beatitudine.
Ma dopo aver terminato il secondo volume, il tormentato scrittore decise di bruciarlo. Dopo qualche anno riprese a scrivere la seconda parte, per poi bruciala ancora; furono salvati miracolosamente i primi quattro capitoli. Perché? Perché distruggere la purificazione di Cicikov, anche se, com’è noto, Gogol stesso manifestava comportamenti autodistruttivi, aggravati da un’opprimente crisi religiosa? Perché gettarla nel fuoco?
Forse perché lasciando Cicikov in uno stato impuro e sporco, cioè negli inferi, Gogol come persona si sentiva elevato a uno stato puro, beato, celeste. Perché finché il protagonista stava all’Inferno, lo scrittore stava in Paradiso. Stava a Roma.
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