A Cannes il gran momento del cinema russo

Foto: Photoxpress

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Al film “Elena” di Andrej Zvjagintsev è andato il Premio Speciale della Giuria del Festival. Il regista confessa che deve la sua carriera a “L’avventura” di Antonioni

Il regista russo Andrej Zvjagintsev ha avuto accesso agli alti ranghi dei festival cinematografici internazionali fin dal suo primo film. Nel 2003 con “Il ritorno” ha vinto due premi alla Mostra del cinema di Venezia, tra cui il Leone d'oro. “Izgnanie” (conosciuto in Italia col titolo inglese di “The Banishment”) è entrato in concorso al Festival di Cannes del 2007 e ha portato a casa il premio per il miglior ruolo maschile assegnato a Konstantin Lavronenko, l'unico riconoscimento di questo livello mai attribuito a un attore russo. Il terzo film del regista, “Elena”, ha provocato accese discussioni all'interno del comitato che seleziona i film in concorso, ed è stato infine inserito nella categoria “Un certain regard” come lungometraggio ufficiale per la chiusura della kermesse.

Zvjagintsev in effetti chiude con uno dei temi più attuali per tutto il mondo: la discesa dei barbari, anche se l'azione del film riguarda la vita di una sola famiglia. Elena (Nadezhda Markina) è sposata con un uomo ricco e vicino agli ambienti del potere (Andrej Smirnov) alle spalle del quale vive anche la famiglia del figlio di Elena, un buono a nulla alcolizzato. L'errata interpretazione del proprio dovere di madre spinge Elena al delitto.

E' la prima volta che non usa un titolo metaforico in un suo lavoro.

Non ne sono venuti fuori altri. Questo è l'unico che in effetti ci è piaciuto… Elena, il nome della protagonista. Perché no? Come Anna Karenina o i fratelli Karamazov.

Nel film non c'è solo drammaticità, ma anche un certo humor, quasi che al tempo stesso si tratti di una commedia e una tragedia.

Come nel caso di Chekhov, le cui commedie venivano messe in scena da Stanislavskij come drammi. Uno dei produttori mi ha tormentato insistendo che nel film non c'era nessuna luce alla fine del tunnel. E mentre lottavo perché non influenzassero la concezione di base del lavoro sono riuscito a esprimere l'idea che trasferire una qualche speranza direttamente dallo schermo sullo spettatore è di fatto un inganno terribile… Non voglio ingannare le persone sedute in sala. Secondo me l'assenza di speranza e di luce alla fine del tunnel costringono le persone, come uno schiaffo, a riflettere sul proprio destino e magari a cercare da soli la propria speranza.

Però quelli che appartengono alla categoria di quegli stessi barbari, nel finale di “Elena” potrebbero vedere una speranza.

Queste persone possono essere salvate solo da una terribile catastrofe. Perché arrivino a capire quanto sia spaventosa in realtà la loro vita. In effetti io ho una speranza: che lo spettatore veda che Elena, compiendo il delitto, ha distrutto se stessa, anche se era l'unico modo per salvare la sua famiglia.

Nello stesso “Match Point” di Woody Allen il protagonista compie un delitto e noi simpatizziamo per lui, ci mettiamo dalla parte del male.

“Match Point” è un ottimo film. Però non si tratta di stare dalla parte del male, ma del fatto che bisogna guardare la verità negli occhi. I miti e le favole sul bene che vince il male, non sempre funzionano.

Quand'è che si è innamorato del cinema?

E' stato al secondo anno d'università al Gitis, l'Accademia di Arti teatrali, quando ho visto “L'avventura” di Michelangelo Antonioni. Era la prima volta che lo sentivo nominare. La proiezione era nell'aula magna dell'Università statale di Cinematografia, il Vgik, dove riuscii a entrare di straforo grazie a un amico operatore. E ne sono uscito attonito, completamente stordito. All'improvviso avevo capito, dentro di me, che il cinema non è solo il racconto di una storia, che il linguaggio cinematografico non serve solo a trasmettere determinati significati verbali. Ho visto una cosa che mi ha colpito con un'incredibile sensazione di meraviglia, la sensazione che il cinema era in grado di trasmettere qualcosa di molto sottile, che non poteva essere reso visibile, non poteva essere espresso con nessun altro mezzo.

Ma prima non aveva mai visto, per esempio, il nostro Tarkovskij?

Sì, quando ero ancora a Novosibirsk, c'era stata una retrospettiva. Era il 1982. Era uscito da poco “Stalker”. Il miracolo però è avvenuto con “L'avventura” di Antonioni. Forse è solo perché io a quel punto ero maturo abbastanza per capire certe cose.

Leggete la versione originale dell'intervista (in russo) su www.itogi.ru

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