Foto: Ria Novosti
Ancor prima che venisse inaugurata la mostra di Aleksandr Deineka presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, uno dei più influenti quotidiani italiani si è affrettato ad annunciare ai propri lettori che non a caso la Russia aveva deciso di aprire l'Anno di interscambio culturale con l'Italia con le opere di un artista che immortalò la gloria dell'epoca comunista staliniana.
Secondo l'opinione del giornalista italiano, queste opere di un grande maestro del realismo socialista, che cantò la festa della costruzione del socialismo e del sistema sovietico, di per sé rifletterebbero essenzialmente gli umori della élite politica russa contemporanea e il suo sogno di far risorgere l'Urss nei suoi aspetti più totalitari. Anche il fatto che Deineka durante il suo viaggio in Europa, a metà degli anni Trenta del secolo scorso, immortalò con grande sentimento nelle sue opere immagini dell'Italia di allora, viene visto come un tentativo di nobilitare il fascismo italiano, molto vicino nella sua estetica a un artista proveniente dall'Unione Sovietica staliniana.
Si sarebbero potute semplicemente lasciar perdere tutte queste pretese, senza sforzarsi di trovare argomenti in difesa degli organizzatori della mostra: in fin dei conti, nessuno ha costretto i colleghi italiani a scegliere per l'apertura dell’Anno incrociato della lingua e della cultura di Russia e Italia proprio le opere di questo artista.
I nostri colleghi, dopo aver visitato la mostra di Deineka che era stata allestita a Mosca dalla galleria Tretjakov, hanno fatto la loro scelta in modo del tutto autonomo. Hanno ritenuto che sarebbe stato interessante mostrare agli italiani un artista praticamente sconosciuto al pubblico contemporaneo al di fuori della Russia. E del resto anche nella Russia di oggi. Ma lasciar perdere la questione che è stata aperta sarebbe stato più semplice che cercare di dare una risposta. Per i russi questa risposta è ancora più importante che per gli italiani o per altri cittadini stranieri.
Non molto tempo fa, su uno dei canali televisivi principali ho assistito a una delle solite discussioni su Stalin, con la partecipazione dei soliti opinionisti e oppositori, che per l'ennesima volta si trovavano a incrociare le proprie argomentazioni e contro-argomentazioni su questa tematica. E a un certo punto ho capito che non ce la facevo più a starli a guardare. E non soltanto per il fatto che tutte le argomentazioni “pro” e “contro” continuano a essere ripetute da cinquant'anni a questa parte, dai tempi del Ventesimo Congresso del Partito Comunista, e forse anche da prima. E non perché qualunque talk show, per sua natura, non sia in grado, a prescindere dalle più nobili intenzioni dei suoi ideatori, di affrontare a fondo anche problemi meno complessi. Ma soprattutto perché chi si trova a partecipare alla disputa cerca inevitabilmente di imbrigliare l'indocile presente dentro banali limiti storici, senza neanche accordarsi sulla terminologia.
Oggi ormai i sistemi totalitari non hanno niente a che vedere con quelli degli anni Trenta e il concetto stesso di democrazia è ben diverso da quello dei tempi della Rivoluzione francese. Naturalmente un futuro reale può essere creato solo basandosi su un passato reale e questa è già una banalità, che comunque non ha ancora esaurito il suo significato. Però non è possibile andare verso il futuro guardando continuamente al passato: ci si può storcere il collo e rompere le gambe.
Una volta, alla vigilia del XXI secolo, Chingiz Aitmatov scrisse che l'umanità è destinata a riprodurre continuamente gli stessi problemi e che se vogliamo vedere il volto del Terzo millennio sarà sufficiente guardarci allo specchio. Però poco tempo prima della morte di Chingiz Torekulovich, mentre tornavamo a Mosca da Kazan dopo i festeggiamenti per il compleanno di M. Shaimijev, affrontammo di nuovo questo problema e concordammo sul fatto che, pur in presenza di un certo conservatorismo e una ciclicità nello sviluppo dell'umanità, ogni nuovo periodo storico riserva nuove sfide, che in passato sarebbero state inimmaginabili (per non parlare delle nuove minacce). E gli stereotipi storici non sono di alcuna utilità per dare una risposta a tali sfide.
L'uomo, come essere biologico, mantiene il proprio conservatorismo naturale, ma è in grado di cambiare, di modificarsi non solo sul piano sociale. Per mantenere il delicato equilibrio tra la sete di rinnovamento e l'immutabilità dei cicli biologici, non sono necessari soltanto sforzi continui, ma anche una certa qualità delle soluzioni applicate ai problemi che si riversano sull'umanità. Non ci vogliono solo i muscoli di una forte volontà politica, ma anche quella cultura politica e umana che è così carente presso la comunità umana contemporanea.
Laddove la cultura politica e la saggezza comunitaria hanno trionfato, il rapporto tra il passato e il futuro ha raggiunto quella fragile armonia, che è quanto di più necessaria al nostro presente.
Credo che l'unico, insuperato modello di questo tipo di approccio al passato, nel XX secolo sia stata la Spagna, che affrontò una sanguinosa guerra civile e il regime totalitario franchista. Franco, in effetti, fece dei tentativi per unificare la nazione, ma li fece nella sua maniera, decisamente despotica. Appartiene proprio a lui la frase: “Per gli amici tutto, per gli altri la legge”. E' ovvio che un approccio del genere non prevede la sincerità come base della coesione nazionale.
Dopo la morte del caudillo, il re Juan Carlos I salì al trono non come successore di Franco, ma come erede della monarchia storica spagnola, ponendo fine alla falange franchista e introducendo riforme democratiche. Sarebbe importante riuscire a capire cosa sono riusciti a realizzare gli spagnoli nel dialogo con la propria storia, come sono riusciti a prendere le distanze da tutto ciò che c’era di negativo mantenendo invece vivo tutto ciò che era essenziale per riconciliare la nazione col proprio passato, non privo di ombre. E cos’è che li ha aiutati a superare i propri complessi imperialistici, dato che la Spagna è stata una grande monarchia, estesa su tre continenti, una monarchia, sopra la quale “non tramontava mai il sole”.
Sono ben lontano dall'idealizzare ciò che accade nella Spagna contemporanea, ma sono convinto che oggi, il passato spagnolo non stia intralciando in alcun modo il presente spagnolo. E forse non è casuale che l'Anno di interscambio tra Russia e Spagna, inaugurato dal presidente Medvedev e dal monarca spagnolo Juan Carlos I a San Pietroburgo, si sia aperto con un incontro tra uomini d'affari russi e spagnoli e con una mostra del Museo del Prado all'Ermitage, senza precedenti per livello delle opere esposte.
Gli imprenditori hanno parlato del futuro, per il quale nessuno si è arrischiato a scegliere epiteti, mentre i ritratti di imperatori e dignitari di corte ricordavano a tutti un passato grandioso e tragico. Ma non si è parlato della grandezza perduta: la bellezza e la perfezione dei quadri esposti facevano scaturire sentimenti ben diversi, ben più elevati e profondi. L'arte di Velázquez e Goya, El Greco e Dürer ha svelato il legame essenziale del tutto, dell'alto e del basso, del patetico e del comico, del nobile e del ripugnante. La vera arte esiste al di sopra dei significati e delle valenze ideologiche, risveglia quell'umanesimo profondo, che esiste in ogni essere umano e che spesso resta nascosto nella vita di ogni giorno.
In questo senso le opere di Aleksandr Deineka non sono affatto un'eccezione. L'arte di epoca sovietica era creata da veri maestri, da Majakovskij e Meierhold a Shostakovich e Tovstonogov. E la musica della loro arte ci fa sentire in pace col passato, al di sopra di qualunque disputa di tipo politico. Le relazioni con la nostra storia richiedono il silenzio della concentrazione. Le urla non portano mai alla comprensione, sono solo un segno di debolezza.
Pubblicato sulla RG (edizione federale) N5419 del 2 marzo 2011.
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