L’incredibile storia del Saljut-7, la stazione orbitante che poteva cadere sulla Terra

Storia
RUSSIA BEYOND
Nel 1985, i cosmonauti sovietici effettuarono nello Spazio la più difficile manovra della storia, salvando probabilmente migliaia di vite umane. Ecco come andarono i fatti, che hanno anche ispirato un bel film russo

Nel 1985, all’improvviso, fu perso il contatto con la stazione orbitante sovietica “Saljut-7”, che da sei mesi era disabitata e funzionava in modalità automatica.

Il “silenzio” della stazione fu percepito come una condanna a morte: senza la possibilità di correggere a distanza l’orbita dell’apparecchio, la “Saljut-7” era soltanto una massa di ferro di 19 tonnellate che si stava avvicinando alla Terra.

Il Centro di controllo decise di mandare nello spazio una missione, per la quale furono scelti due cosmonauti esperti, Vladimir Dzhanibekov e Viktor Savinykh. L’equipaggio doveva “intercettare” al volo la stazione, agganciare la navicella a “Saljut-7”, poi entrare dentro la stazione e riattivarla.

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Usando una replica della “Saljut-7”, per quattro mesi i cosmonauti avevano simulato ogni situazione immaginabile, imparando a muoversi nel buio totale (l’impianto elettrico della stazione non funzionava più) e studiando i manuali.

Dopo il lancio, quando la navicella si era ormai avvicinata a “Saljut”, si capì che la stazione era rivolta verso la navicella con il suo boccaporto di attracco non funzionante. Le possibilità erano due: rinunciare alla missione o tentare di girare attorno alla stazione.

L’attracco manuale, se avesse fallito, avrebbe significato una tragedia. L’errore di un solo millimetro poteva danneggiare il modulo di aggancio o provocare uno scontro con la stazione, aprendole una breccia nella fiancata.

Dzhanibekov però riuscì nell’impresa, effettuando una manovra senza precedenti nella storia. Dopo essere entrati nella stazione, i cosmonauti scoprirono la causa di tutti i problemi: un sensore guasto che segnalava le batterie come pienamente cariche. A ogni segnalazione del sensore, il computer disattivava i pannelli solari, e in questo modo tutta l’energia si era esaurita.

Per riattivare i sistemi, i cosmonauti fecero girare la stazione in modo che la luce del sole illuminasse i pannelli solari. Gli strumenti cominciarono a dare segni di vita. Ventiquattro ore dopo, la stazione era pienamente funzionante.

Una volta rientrata in funzione, Dhzanibekov e Savinykh trascorsero a bordo della “Saljut-7” più di 100 giorni, ormai, però, in regime ordinario.

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