“Saljut-7”: così i cosmonauti sovietici salvarono la Terra con una manovra eroica

Aleksandr Mokletsov/Sputnik; Sputnik
La stazione spaziale era fuori controllo e i suoi rottami rischiavano di ricadere sul nostro pianeta, facendo vittime e dando un grave colpo alla reputazione dell’Urss. Per evitare tutto questo, fu necessaria una missione senza precedenti, che è considerata la più difficile e pericolosa nella storia della cosmonautica mondiale

La perdita del controllo

L’11 febbraio 1985, alle ore 09:23, il Centro di controllo missione, come di consueto, inviò un segnale alla stazione spaziale “Saljut-7” per verificare il funzionamento dei sistemi di bordo. Da sei mesi la stazione era disabitata e funzionava in modalità autonoma, ma questa volta non reagì ai comandi. Era chiaro che era successo qualcosa, ma nessuno sulla Terra conosceva la causa dell’improvvisa “morte” dell’apparecchio spaziale.

La stazione orbitale Saljut-7 con agganciata la navicella spaziale Sojuz T-14. Foto dei cosmonauti sovietici Vladimir Dzhanibekov e Georgij Grechko. L’immagine è stata scattata dalla navicella “Sojuz T-13” il 12 novembre 1986

Senza la possibilità di correggere a distanza l’orbita dell’apparecchio, la stazione era soltanto una massa di ferro di 19 tonnellate che si stava gradualmente avvicinando alla Terra. Persino secondo le previsioni più ottimistiche, evitare vittime umane era praticamente impossibile: quello che non sarebbe bruciato nell’atmosfera, avrebbe raggiunto la Terra. Secondo i calcoli, diversi frammenti potevano cadere su alcune città. Il Centro di controllo e i dirigenti dell’Urss non volevano rassegnarsi a questa ipotesi. Il principale motivo di tale intransigenza, per quanto possa sembrare cinico, era che una catastrofe di tali proporzioni avrebbe danneggiato in maniera irreparabile l’immagine dell’Urss.

I preparativi della missione

I preparativi per la missione di salvataggio furono avviati subito dopo la perdita del controllo. Alla metà di maggio furono selezionati i cosmonauti. Il comando fu affidato a Vladimir Dzhanibekov. L’ingegnere di bordo era Viktor Savinykh.

L’equipaggio della navicella spaziale Sojuz T-13 Vladimir Dzhanibekov (a sinistra) e Viktor Savinykh (a destra) prima del lancio. 6 giugno 1985

Per quattro mesi, Dzhanibekov rimase ai comandi del simulatore, preparandosi a “intercettare” al volo la stazione spaziale e simulando ogni situazione immaginabile. Un errore poteva risultare fatale per i cosmonauti, ma anche per parecchie persone sulla Terra.

Savinykh, intanto, studiava le specifiche e i manuali della “Saljut”, perché la causa dell’improvvisa disattivazione della stazione rimaneva ignota. Inoltre, dovette imparare a muoversi sulla stazione nel buio totale, perché l’impianto elettrico non funzionava più. Per questo, fu usata una replica della “Saljut-7”.

I piloti-cosmonauti dell’Urss Viktor Savinykh (a sinistra) e Vladimir Dzhanibekov durante l’addestramento al Centro di addestramento per cosmonauti “Gagarin” alla Città delle Stelle

Anche la nave spaziale “Sojuz T-13” fu modificata: una parte dello spazio interno fu riservata alle provviste di cibo, perché non si sapeva quanto sarebbe durata la missione, mentre il cibo che già si trovava a bordo della “Saljut-7” poteva essere deperito a causa del freddo.

Inseguimento nello Spazio

La mattina del 6 giugno 1985, la navicella di Dzhanibekov e Savinykh fu lanciata dal cosmodromo di Bajkonur. L’equipaggio aveva un solo tentativo per raggiungere la stazione all’altezza di 300 km dalla Terra.

Durante il secondo giorno del volo, la “Sojuz” si avvicinò alla stazione spaziale. I calcoli dimostravano che la distanza tra la navicella e la stazione era di soli 10 km. Attraverso l’oblò della nave già si vedeva una piccola “stellina” che brillava sempre di più. L’equipaggio cominciò a preparare la manovra, la più difficile nella storia della cosmonautica. In modalità automatica, Dzhanibekov ridusse la distanza fino a 2,5 km, poi attivò i comandi manuali e cominciò l’avvicinamento per attraccare. Quando la stazione era già vicina, i cosmonauti videro che c’era un grave problema.

I membri dell’equipaggio della navicella Sojuz T-13, il pilota-cosmonauta dell'Urss, due volte Eroe dell'Unione Sovietica, colonnello Vladimir Dzhanibekov (a destra) e il pilota-cosmonauta dell’Urss, Eroe dell’Unione Sovietica Viktor Savinykh prima del volo

La “Saljut-7” era rivolta verso la navicella con il suo boccaporto di aggancio non funzionante. In questa situazione, le possibilità erano due: tornare sulla Terra o tentare di fare un giro attorno alla stazione. La manovra poteva costare la vita a entrambi i cosmonauti. Dzhanibekov chiese l’autorizzazione al Centro di controllo missione. Il lungo silenzio innervosiva, ma alcuni minuti dopo i cosmonauti ebbero la risposta: dovevano tentare la manovra.

La manovra ebbe successo grazie ai lunghi allenamenti e all’esperienza di Dzhanibekov. Ora, attraverso l’oblò, egli vedeva il modulo di aggancio che funzionava, restava soltanto attraccare, centrando i ganci. L’errore di un solo millimetro poteva danneggiare il modulo di aggancio o provocare uno scontro con la stazione, creando una breccia nel suo fianco. Ciò avrebbe significato il fallimento della missione. 

Il pilota-cosmonauta dell’Urss Vladimir Dzhanibekov nel corso di una “passeggiata spaziale”, il 25 luglio 1984

Per un attimo, fu come se la navicella si fosse fermata. Poi ci fu una leggera spinta e i cosmonati sentirono lo stridore dei ganci di attracco. La “Sojuz” si agganciò alla stazione orbitante.

Mission impossible

Tuttavia, l’operazione era ancora ben lungi dall’essere terminata. Si doveva “rianimare” la stazione. Dzhanibekov e Savinykh si preparavano a passare sulla stazione disabitata. Tutto doveva essere fatto manualmente, dato che i sistemi automatici non funzionavano. In due, aprirono una valvola sulla porta per normalizzare la pressione e poi entrarono dentro la stazione.

Cosmonauti sovietici a bordo del complesso orbitale Sojuz T-14/Saljut-7/Kosmos-1686 (da sinistra a destra): Vladimir Vasjutin, Georgij Grechko, Viktor Savinykh, Aleksandr Volkov e Vladimir Dzhanibekov

L’impianto elettrico della “Saljut-7” non funzionava; tutti i sistemi erano disattivati. Gli strumenti di bordo avevano subito gli effetti delle temperature estremamente basse e quindi non si sapeva se sarebbe stato possibile riattivarli. Anche le batterie erano scariche, mentre collegare la stazione all’impianto elettrico della nave “Sojuz” era troppo pericoloso: un eventuale cortocircuito poteva danneggiare anche i sistemi elettronici della navicella. Ciò avrebbe significato morte sicura.

L’unica soluzione era alimentare i sistemi della stazione con pannelli solari. Attivando i motori della “Sojuz”, i cosmonauti orientarono la stazione nel modo da far illuminare i pannelli. Gli strumenti cominciarono a dare dei segni di vita. Ventiquattro ore dopo, Savinykh si decise a collegare le batterie all’impianto elettrico della stazione: la “Saljut-7” tornò in vita.

Orbita vicina alla Terra. Complesso orbitale sovietico Saljut-7/Sojuz T-14 dopo lo sgancio della navicella con equipaggio Sojuz T-13. Foto scattata dai membri dell’equipaggio della Sojuz T-13 Vladimir Dzhanibekov, comandante della navicella, e Viktor Savinykh, ingegnere di volo

In tutto, l’equipaggio trascorse a bordo della “Saljut-7” più di 100 giorni. In questo periodo riuscirono non solo a riparare i guasti, ma anche a sostituire molti sistemi elettronici con dispositivi nuovi. Durante i lavori di riparazione scoprirono anche la causa di tutti i problemi: un sensore guasto che segnalava le batterie come pienamente cariche. Ad ogni segnalazione del sensore, il computer disattivava i pannelli solari fino a quando tutta l’energie si era esaurita.

Gia sette giorni dopo l’inizio della missione, il Centro di controllo potè ripristinare in pieno il controllo della stazione, pertanto i cosmonauti tornarono alla loro attività di routine. 

Il 18 settembre 1985, alla stazione si agganciò la nave “Sojuz T-14”, il cui equipaggio doveva dare il cambio a Dzhanibekov e Savinykh. Il 26 settembre, Vladimir Dzhanibekov, dopo 110 giorni nello spazio, tornò sulla Terra insieme a Georgij Grechko. Viktor Savinykh rimase a bordo della stazione spaziale per 168 giorni e rientrò il 21 novembre.

L’equipaggio della navicella spaziale Sojuz T-13: Vladimir Dzhanibekov (a sinistra) e Viktor Savinykh (a destra)

Nel 1990, la stazione aveva esaurito il suo coefficiente di sicurezza e cominciò a perdere quota – 6-8 km al giorno. Nella notte tra il 6 e 7 febbraio 1991, la “Saljut-7”, precipitando alla velocità di circa 30.000 km/ora, entrò negli strati superiori dell’atmosfera, dove bruciò quasi completamente. 

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