Il “giogo tataro-mongolo” è veramente esistito in Russia?

Storia
GEORGY MANAEV
Il fenomeno che si usa definire “giogo”, ossia la dominazione straniera, ci fu davvero. Il problema è che la nostra comprensione del periodo si basa su concetti successivi, ampiamente ideologizzati, e non sul rigore scientifico nell’analisi storica. Proviamo a capire insieme quali sono gli errori principali

La dipendenza finanziaria e politica dei principati dell’antica Rus’ dai conquistatori orientali – Batu Khan e suoi discendenti – è un fatto storico. Il loro Stato, l’Ulus di Juci (o Zuchi, o Khanato Kipchak), inizialmente faceva parte dell’Impero mongolo, ma col tempo divenne indipendente. In Russia lo stato di Batu Khan veniva chiamato “Orda d’Oro” o “Grande Tenda”, cioè, si associava alla residenza del governante (al centro decisionale, come si direbbe oggi).
Tuttavia:
– gli invasori non si facevano chiamare tataro-mongoli,
– la parola “giogo” (“igo” in russo) rimase sconosciuta in Russia fino al XVII secolo, pertanto nessuno associava la condizione di dipendenza a questo vocabolo di origine latina,
– i rapporti fra Rus’ e Orda d’Oro ben presto mutarono, trasformandosi in relazioni tra due Stati confinanti, con ruolo spesso predominante delle terre russe già a partire dalla metà del XIV secolo.

Ma approfondiamo ogni punto sopracitato. 

1 / Gli invasori non si facevano chiamare tataro-mongoli

“Tatari” e “mongoli” non erano i nomi con cui questi popoli si autodefinivano. Gli storici concordano che queste parole siano state inventate dai cinesi.

I mongoli

In Cina, le tribù che abitavano a Nord dei territori cinesi si chiamavano “mongoli” (“men-u”), tutti gli altri erano per i cinesi dei “tatari” (“dadan”) o “mongolo-tatari” (“men-da”). Questa tradizione risale alla fine del X secolo, quando in Cina salì al potere la dinastia Song, scrive lo studioso Vladimir Rudakov.

Il fondatore dell’Impero mongolo, Temüjin Borjigin, meglio conosciuto come Gengis Khan (1155?-1227), capostipite dei Gengiskhanidi, apparteneva alla famiglia Borjigin. Furono appunto i Gengiskhanidi a identificarsi con i mongoli, mutuando questo nome dai cinesi, dopo la conquista della Cina da parte di Gengis Khan e dei suoi discendenti all’inizio del XIII secolo. Nello Stato di Gengis Khan ai mongoli nobili erano assegnate le funzioni di condottieri (“noyan”). L’esercito era composto da diverse tribù, sottomesse dai mongoli, usate come forza d’assalto. L’obbligo del servizio militare vigeva per tutti i popoli conquistati.

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I tatari

Per i cinesi, erano tatari (“dadan”)  tutte le tribù dei nomadi a Nord della Grande Muraglia. Chiamavano così sia i tatari della Siberia orientale, sia i mongoli, sebbene queste etnie fossero in guerra tra di esse. Alla fine i mongoli sterminarono quasi tutti i tatari della Siberia orientale, pertanto i tatari che vivono oggi in Siberia non discendono da quelli antichi.

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I mongoli, da parte loro, continuavano a chiamare tatari tutte quelle tribù asiatiche, in prevalenza di ceppo turco, che loro conquistarono durante la marcia verso le terre russe.

Nella storiografia russa, il termine “tataro-mongoli” fu usato per la prima volta nel 1823 da Pjotr Naumov, docente del 1° ginnasio di San Pietroburgo.

2 / La parola “giogo”

Furono gli storici a inventare il termine “giogo” per definire i rapporti tra Rus’ e Orda d’Oro.

Il “giogo” (latino: jugum) è lo strumento utilizzato per l’attacco dei bovini usati come bestie da tiro e veniva già usato nell’Antica Roma. Metaforicamente, “giogo” indica anche l’assoggettarsi a una dura umiliazione o prendersi un carico gravoso. Dice Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Matteo, 11, 29-30).

Relativamente alla dipendenza dall’Orda delle terre russe, il termine “giogo” fu lanciato nel 1479 dal cronista polacco Jan Długosz nel suo libro “Annali o cronache del famoso regno di Polonia”. In Russia il termine fu usato per la prima volta dall’archimandrita Innocenzio (Giesel) in “La sinossi”, libro edito a Kiev nel 1674 e accolto in Russia con molto favore. Successivamente, fu ripreso da Nikolaj Karamzin che ideologizzò il concetto di “giogo tataro-mongolo”.

3 / Perché il metodo di Karamzin non può essere considerato storico?

Nel 1818 Nikolaj Karamzin pubblicò i primi 8 volumi della sua monumentale “Storia dello Stato russo”, la prima opera storiografica in cui si analizzava la storia della Russia sin dalle sue origini. Tuttavia, Karamzin era uno scrittore, per di più, di genere “romanzesco”, per cui, inevitabilmente, diede alla sua opera un’impronta moralizzatrice.

Nel 1792, in “Lettere di un viaggiatore russo”, Karamzin si rammaricava: “Mi duole… il fatto che, fino ad oggi, non abbiamo una storia russa valida, cioè scritta con intelligenza filosofica, con spirito critico e con nobile eloquenza… Possiamo scegliere, animare, dare un tocco di colore, e allora, il lettore sarà stupito da come Nestor di Pecherska [il cronista], [il patriarca] Nikon e altri possano diventare un qualcosa di attraente, forte e degno di attenzione”.

Karamzin scrisse la sua “Storia”, perseguendo uno scopo preciso: far capire che il popolo russo stava inesorabilmente avanzando verso la libertà e l’illuminismo, sotto la saggia guida dello zar ortodosso. A detta di Vasilij Kljuchevskij, anch’egli insigne storico, “lo scopo dell’opera di Karamzin è quello di fare della storia russa un’elegante edificazione”.

Per questo motivo, raccontando l’invasione delle orde mongole, Karamzin propone subito una sua versione, alla quale resta fedele fino alla fine. Per esempio, descrivendo il viaggio nell’Orda d’Oro, intrapreso nel 1243 dal principe Jaroslav II di Vladimir per ricevere da Batu Khan il suo primo jarlyk (editto che conferiva il titolo) di gran principe di Vladimir, Karamzin fa una conclusione perentoria: “...e così, i nostri principi rinnegarono solennemente i loro diritti di un popolo indipendente, infilando il collo nel giogo dei barbari”.

Lo scrittore tace sul fatto che resistere a Batu Khan era impensabile. L’esercito mongolo superava di molte volte le truppe di tutti i principati russi messe insieme. Per di più, quello dei mongoli era un esercito regolare. Karamzin sostiene anche che in quel periodo i russi erano un popolo unito e indipendente, il che non è vero, perché, all’epoca, la Rus’ era costituita da una moltitudine di principati in guerra tra di loro; quindi, non c’era alcuna unità.

La teoria di Karamzin si rivelò molto comoda. Amante della moda e degli Enciclopedisti, anglofilo, egli lanciò un’idea secondo cui la Russia “era in ritardo” rispetto all’Europa “illuminata”. “Abbiamo avuto un nostro Carlo Magno – [il principe] Vladimir, un nostro Luigi XI – lo zar Ivan [Ivan il Terribile], e un nostro Cromwell – [Boris] Godunov”, egli scriveva. Karamzin non attribuiva alla storia russa un valore a sé stante, per lui era soltanto un riflesso degli eventi della storia europea; di conseguenza, i “tatari” sono diventati per lui dei “barbari”. In tal modo, il giogo che, in realtà, fu messo al collo dei barbari dalle legioni della Roma “civilizzata”, secondo Karamzin, fu imposto ai russi, trasformandoli in un popolo minorato.

4 / Che impatto ha avuto l’invasione mongola?

L’invasione di Batu Khan privò i principi russi della loro indipendenza. I mongoli non volevano insediarsi nelle terre russe, né le volevano amministrare. Volevano che i russi pagassero regolarmente dei tributi, in denaro (in russo “dengi”, parola mutuata dal turco) e in uomini da trasformare in soldati del loro esercito. I principi russi divennero, di fatto, dei vassalli e mandavano al khan le loro truppe per la campagne militari dei mongoli contro Bisanzio, la Lituania e il Caucaso.

I mongoli, che non volevano assumersi il peso delle vicende interne dei russi, lasciarono ai principi rjurikidi, discendenti di Rjurik, il diritto di governare i loro principati. Avevano notato che i russi erano disposti a morire piuttosto che far profanare le loro case e, soprattutto, le chiese, pertanto era inutile cercare di schiavizzarli. Tuttavia, i principi potevano restare padroni delle loro città soltanto con l’autorizzazione da parte dell’amministrazione mongola. Per questo dovevano recarsi dai mongoli personalmente e presentarsi al khan, per ottenere un apposito documento che si chiamava “jarlyk” (editto).

È importante capire che sia i khan che i principi russi volevano evitare i disordini, perché sia gli uni che gli altri erano mantenuti dalla popolazione. Non era certamente nell’interesse dei mongoli gli attacchi contro i russi da parte dell’Occidente. E allo stesso tempo non volevano che qualcuno dei principi potesse diventare troppo forte senza la loro autorizzazione. Nel 1252, per esempio, per sostenere il “suo” principe Aleksandr Jaroslavich (Aleksandr Nevskij), che stava combattendo contro suo fratello Andrej e suoi alleati, Batu Khan gli mandò in aiuto delle truppe, comandate da Nevrjuj. I mongoli devastarono moltissime città e portarono in prigionia migliaia di russi, mentre Aleksandr diventò sovrano del principato di Vladimir e procedette al censimento della popolazione, al fine di riscossione dei tributi (da pagare ai mongoli).

Gradualmente, a partire dal XIV secolo, i principi russi cominciarono a riscuotere direttamente i tributi, imposti alle loro popolazioni, perché, in precedenza, i russi si erano più volte ribellati ai Basqaq (detti anche Darughachi), i funzionari mongoli preposti alla riscossione. In parallelo, nello Stato mongolo, già dalla metà del XIII secolo, era in corso un processo di frammentazione politica. C’erano ormai più governanti che si facevano chiamare “Gran Khan”, e ciascuno di essi reclamava dai russi dei tributi e pretendeva il diritto di rilasciare gli Jarlyk. Come osservava lo storico Nikolaj Borisov, “il gran principe doveva o dividere i tributi in più parti, riducendo la quota di ciascun destinatario, o relazionarsi con una sola persona, trattando tutti gli altri come impostori”.

I principi russi continuavano a partecipare alle guerre a fianco dei tatari, a invitare gli “zarevic” tatari, ai quali delegavano determinate funzioni, e ad allearsi con loro, a sposare le principesse dei tatari e a dare le figlie in sposa ai principini turchi. Negli anni Cinquanta del Milleduecento venne in Russia lo zarevic Dair Kajdagul, pronipote di Gengis Khan, che si convertì all’ortodossia, prendendo il nome di Pjotr Ordynskij. Il khan Berke, suo zio, approvò la scelta del nipote e gli mandò dei ricchi doni. I nobili russi si imparentavano volentieri con le famiglie tatare di rango elevato che credevano essere “più antiche”.

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L’elenco di queste interazioni potrebbe essere continuato, ma anche quanto sopra basta per capire che quello che si usava chiamare “giogo”, la dipendenza servile della Rus’ dai sovrani mongoli e tatari, in realtà furono rapporti tra i principati russi, non ancora uniti, e gli “ulus” (territori) dei tatari.

Anche l’opinione di Nikolaj Karamzin, secondo cui l’invasione mongola avrebbe “frenato” lo sviluppo della Russia, non è pienamente condivisibile.

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5 / Nell’Orda i principi russi venivano uccisi? 

Sì, ma come i principi mongoli in Russia.

Naturalmente, i rapporti tra i russi e i tataro-mongoli non erano sereni. La dipendenza politica e i tributi coercitivi non possono basarsi su sentimenti di amicizia. I principi si recavano nell’Orda d’oro per ottenere il loro titolo (Jarlyk) o per essere giudicati dal khan che fungeva da “arbitro” nelle discordie intestine. Prima di partire, i principi lasciavano alla famiglia il loro testamento, perché erano consci del pericolo: il khan li poteva far giustiziare, o potevano essere uccisi da altri principi. Così, nel 1325, a Saraj Batu (Vecchia Saraj), il principe Dmitrij Mikhajlovich di Tver, soprannominato Occhi Terribili, attirò in trappola e uccise il principe Jurij Danilovich per vendicare la morte di suo padre. Un anno dopo, lo stesso principe Dmitrij fu giustiziato per questo assassinio da Uzbek Khan.

D’altra parte, anche i russi massacrarono alcuni ambasciatori mongoli, commettendo un atto inammissibile. I russi uccisero anche diversi principi dell’Orda d’Oro. L’episodio più clamoroso riguarda Shevkal (Shchel Khan), discendente diretto di Gengis Khan, che fu bruciato vivo durante l’Insurrezione di Tver del 1327.

Tutto sommato, però, i russi preferivano non prendere ostaggi e non uccidere i nobili mongoli, perché la vendetta era spietata. Per questo motivo, anche dopo l’acquisizione dell’indipendenza, i russi continuarono a invitare numerosi khan e zarevic “tatari”, regalando loro terre, e li nominavano persino a posizioni di tutto rispetto alla corte dello zar. Fino alla fine del XVII secolo, nel territorio dell’odierna Regione di Rjazan, è esistito il Khanato di Qasim, creato semplicemente per dare ai suoi “temibili” governanti (fra virgolette, perché ormai erano vassalli dei russi) la possibilità di finire decorosamente i loro giorni.


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