Negli anni Venti e Trenta del Novecento, la maggioranza delle persone in Unione Sovietica, uomini e donne, in città e in campagna, si vestiva in maniera molto semplice: un cappotto informe, un paio di valenki (stivali di feltro), un burka (lungo mantello di feltro, da non confondere con il burqa delle donne islamiche). Nel corso di pochi anni, però, il protagonista indiscusso degli indumenti invernali divenne il “vatnik” (o “telogrejka”), una giacca trapuntata con imbottitura di cotone, economica, facile da cucire, e che quindi poteva essere prodotta in grandi quantità.
Durante la Seconda guerra mondiale, il vatnik fu l’indumento quotidiano di vaste masse di persone. Se lo mettevano non solo i militari al fronte, ma anche gli operai che lavoravano nelle fabbriche senza riscaldamento, i geologi alla ricerca dei minerali, i contadini. Esercito, studenti, operai industriali e operai edili, detenuti, conducenti di automezzi, tutti idossavano questa giacca trapuntata. Per proteggersi dal vento freddo, la giacca si stringeva con una cintura o un pezzo di corda.
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Dopo la guerra, man mano che cresceva il benessere, i sovietici cominciarono a portare dei cappotti pesanti.
In città, chi aveva i soldi si faceva fare un cappotto su misura con il collo di pelliccia, accompagnandolo con un copricapo realizzato con della pelliccia dello stesso tipo. Le persone meno abbienti dovevano accontentarsi di quello che trovavano in vendita: modelli standard decorati con pelliccia sintetica.
Negli anni Cinquanta nacque la moda della pelliccia, ma soltanto pochi potevano permettersene una pregiata. Per la maggioranza della popolazione c’erano le pellicce di astrakan, che costavano meno, ma che in ogni caso furoreggiarono, specie in città, negli anni Cinquanta.
Talvolta la moda risultava più forte del buon senso. Negli anni Cinquanta, persino nel periodo invernale, molte delle fortunate proprietarie di pellicce o eleganti cappotti, si mettevano in testa soltanto dei ridicoli cappellini che appena appena coprivano la nuca. A Mosca questi copricapi furono soprannominati “cappellini della meningite”, in quanto non riparavano quasi la testa, per cui beccarsi un brutto malanno era più che facile.
Ciò valeva però per le patite della moda. La maggioranza delle donne credeva che il miglior copricapo per l’inverno fosse uno scialle di lana. Infatti, questi scialli, sebbene pizzicassero parecchio, permettevano di risolvere molte situazioni. Normalmente si usavano per coprire la testa, ma se occorreva fare la fila fuori, con temperature sotto lo zero, lo scialle veniva avvolto attorno alla vita. Chi si prendeva un raffreddore, metteva delle pomate sul collo e sul petto, e poi copriva queste zone con uno scialle di lana.
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Il colbacco, il copricapo russo più conosciuto (che in russo si chiama “ushanka”), subì una grande evoluzione nell’arco dei secoli. Il suo prototipo, usato dai contadini della Russia antica, si chiamava treukh (cappello di pelliccia che copriva non solo la testa, ma anche il collo).
Successivamente, nel periodo sovietico, il colbacco fu introdotto nell’Armata Rossa come parte dell’uniforme invernale. Negli anni Sessanta il copricapo fu apprezzato dal segretario generale del Pcus Leonid Brezhnev, e da allora i colbacchi di renna e astrakan diventarono molto di moda tra i funzionari del partito.
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Per le persone comuni, in Urss, c’era una versione più semplice, realizzata in pelliccia di coniglio.
Gli uomini, intanto, continuavano a coprirsi con cappotti, lunghi o corti, con collo di pelliccia. Le pellicce più richieste erano astrakan, castoro rasato e topo muschiato.
Le donne, per non patire il freddo, spesso dovevano vestirsi a cipolla, perché i pantaloni entrarono a far parte della moda femminile soltanto nei primi anni Settanta. Prima di allora erano soltanto un indumento da lavoro.
Ecco perché, sotto la veste, la donna portava un “braghettone” di cotone o lana; e si copriva le gambe con calze pesanti, mettendone talvolta 2-3 paia contemporaneamente.
Con le calzature la situazione era più complessa. I valenki classici, di feltro, non erano molto adatti alla vita in città, mentre gli stivali da donna di buona qualità costavano molto ed erano piuttosto uno status symbol. Per comprarli toccava perdere ore e ore facendo la fila, o usare degli schemi “non convenzionali”. I migliori stivali venivano importati da Iugoslavia, Romania, Ungheria e Finlandia, dove l’inverno, tutto sommato, è parecchio più caldo, ma le donne sovietiche erano pronte a sacrificarsi, pur di essere eleganti.
Chi si vestiva come “la natura comanda”, erano i bambini. Un bambino sovietico, che d’inverno usciva di casa, era un vero “sandwich”: biancheria intima, una camicetta leggera, poi un maglione, collant seguiti da calze fuseaux e, infine, calze di lana. Quindi una pelliccia o un cappotto, stretti da una cintura. Sulla testa al bambino si metteva un berrettino leggero o un fazzoletto, e poi un cappello di pelliccia. I piedi si infilavano dentro i valenki, più raramente si usavano gli stivaletti.
Quando faceva particolarmente freddo, sopra la pelliccia o il cappotto si metteva uno scialle di lana (di quelli che abbiamo ricordato in precedenza), che veniva annodato davanti o dietro.
Tutti questi indumenti ingombranti impacciavano i movimenti del bambino, ma erano ideali per fare delle lunghe passeggiate senza che prendesse freddo.
Naturalmente, c’erano anche i guanti a manopola. Venivano saldamente cuciti alle estremità di un lungo pezzo di elastico, che passava dietro il collo e dentro le maniche della pelliccia. Perdere i guanti, fissati in tale maniera, era praticamente impossibile. Ma alcuni ci riuscivano.
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