Rogervik, il campo di lavoro sul Baltico che era come una condanna a morte

Russia Beyond (Foto: Charles-André van Loo; Dominio pubblico)
L’imperatrice Elisabetta (Elizaveta Petrovna) fu il primo sovrano russo sotto il quale non fu eseguita neppure una sola pena capitale. Ma i lavori forzati per la costruzione di un porto nell’attuale Estonia avevano spesso lo stesso risultato fatale

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La vita media di un prigioniero ai lavori forzati a Rógervik era inferiore ai tre mesi. Lo scrittore Andrej Bolotov nel 1755 fu in servizio qui come sorvegliante dei condannati che dovevano costruire il porto nella baia di Rogervik. Ricordò che “i detenuti venivano portati al lavoro circondati da ogni lato da una fila continua di soldati con le armi cariche, vivevano in baracche cinte da una palizzata, tutti incatenati a ceppi di ferro, alcuni con catene doppie e triple, e c’erano circa un migliaio di loro in quel momento”.

I prigionieri dovevano lavorare alle cave e alla costruzione del porto in ogni condizione atmosferica. Era indifferente se pioveva, nevicava o grandinava, e il vento proveniente dal mare qui era costante e feroce. La storica Elena Marasinova ha calcolato che dal 1753 al 1756 furono portati a Rogervik 13.242 prigionieri, e 13.101 di loro morirono.

Un porto strategicamente importante

La baia di Rogervik, 1723

La storica Rogervik è l’attuale città estone di Paldiski, 52 km a ovest di Tallinn. Il suo primo nome (dallo svedese Rågervik; “Golfo della segale”) gli fu dato dai coloni svedesi che vissero qui dal XIV secolo. La Baia di Rogervik è chiusa da quasi tutti i venti, ad eccezione di quelli di nord e nord-ovest, e quindi non gela quasi mai in inverno, il che è molto importante per la flotta.

Una roccia a strapiombo e il faro di Rogervik

Questo non accadeva al porto di Reval (l’attuale Tallinn), dove Pietro il Grande aveva basato la flotta russa all’inizio del XVIII secolo, quando era in corso la Grande guerra del Nord, un lungo scontro militare con la Svezia. In inverno, il porto di Reval si congelava e anche in estate potevano verificarsi disastri a causa dei forti venti baltici. Pietro stava cercando il posto migliore per ancorare la sua flotta. Nel 1710, il capitano-tenente Gesler, dopo aver esaminato le coste del Golfo di Finlandia e di Riga, riferì a Pietro che l’unico luogo in cui la flotta poteva essere ancorata era la baia di Rogervik, anche se non era molto buona come porto, “perché è impossibile sistemarvi, a causa della larghezza della baia, fortezze, e quindi la flotta non avrà protezione dal nemico dal mare”.

Pietro era un sovrano estremamente oculato, non si fidava particolarmente di nessuno, e prima di spendere molti soldi per la fondazione del porto e la costruzione della fortezza, si recò personalmente a Rogervik. In totale, la visitò sei volte e misurò anche personalmente la profondità della baia per assicurarsi che fosse sufficiente per il passaggio delle pesanti navi da guerra. Nel 1715, lo zar (si sarebbe proclamato imperatore sei anni dopo) ordinò finalmente la costruzione di due porti a Rogervik, uno per le navi militari e uno per quelle mercantili. Dispose anche di costruire l’Ammiragliato, il cantiere navale e la città. Per proteggere la baia dai venti, ordinò di edificare un molo di pietra dal centro dell’isola di Malyj Rog (oggi Väike Pakri) alla terraferma. Questo voleva dire oltre 2,5 km. Il lavoro era veramente duro, manuale: bisognava estrarre la pietra nelle cave e con quei massi costruire una diga foranea. Il 20 luglio 1718, il sovrano mostrò con l’esempio personale come sarebbe andata la costruzione, lanciando una pesante pietra nella baia: iniziò così la costruzione del porto di Rogervik.

“La deportazione per chi non vuole radersi la barba”

Un detenuto in un campo di lavoro a Nerchinsk, in Siberia

Nei primi anni furono portati materiali a Rogervik e fu costruita la città, tra cui: “la chiesa in legno di San Giorgio, 67 baracche, il quartier generale, un mulino a vento, due moli per lo scarico delle navi”. Ma la costruzione del porto militare non iniziò fino al 1721, quando Pietro pose fine alla Guerra del Nord. Il 30 agosto 1721, a Nystadt (oggi è la città finlandese di Uusikaupunki), due altri dignitari russi, Jakov Brjus e Andrej Osterman, firmarono il trattato di pace con la Svezia. Da parte svedese venne ancora la timida proposta di non iniziare a costruire un porto a Rogervik, ma la Russia aveva vinto la guerra e Pietro non era interessato a sentire l’opinione svedese. Lo stesso giorno, il 30 agosto, riferì al Collegio Militare di San Pietroburgo della necessità di un porto a Rogervik e, pedante e assertivo come sempre, mise in moto tutte le procedure burocratiche per l’inizio dei lavori.

Già nel 1722 a Rogervik fu istituita la “kátorga”; i lavori forzati. Pietro ordinò di esiliare lì principalmente i Vecchi Credenti, in base a due decreti: “Sulla deportazione a Rogervik di quelli che non vogliono radersi la barba e non hanno mezzi per pagare la multa” e “Sull’invio degli scismatici invece che in Siberia a Rogervik per il lavoro a vita.” Nel periodo 1721-1724, 9.136 lavoratori furono coinvolti nella costruzione del porto. Non ci sono statistiche sulla mortalità tra di loro, ma le parole del decreto “lavoro a vita” suggeriscono che molto probabilmente nessuno tornò a casa da Rogervik. Ma con la morte di Pietro, nel 1725, la costruzione del porto fu interrotta: nei suoi ultimi decreti, l’imperatore ordinò il rilascio di tutti i detenuti dell’Impero, ad eccezione di assassini e ladri, affinché pregassero per la salute del sovrano.

Detenuti russi, XIX secolo

Nel 1726, nella fortezza c’erano 450 persone, 150 di loro furono trasferite nelle miniere di Nerchinsk e il resto scomparve. Nel 1746, già sotto Elisabetta di Russia (Elizaveta Petrovna), il Senato riferì su Rogervik che “a parte 10 artigiani non c’è nessuno… l’edificio non viene costruito, le lastre… sono diventate inutilizzabili per l’umidità e il maltempo, e a quanto dicono, tutto il duro lavoro degli schiavi è praticamente finito sott’acqua”.

Anche l’imperatrice Elisabetta decise di visitare personalmente Rogervik, nello stesso 1746, subito dopo il rapporto del Senato. Insieme a lei andarono il Granduca e la Principessa, i futuri sovrani Pietro III e Caterina II (la Grande). Dalle note della giovane Caterina, risulta chiaro che a quel tempo la città era un posto davvero poco ospitale.

Via Georgievskaja

“Come ci siamo stancati le gambe in questo viaggio! Il terreno là è roccioso, ricoperto da uno spesso strato di piccoli ciottoli in tale qualità che se ti fermi in un punto, i piedi iniziano a sprofondare. Ci siamo accampati e per diversi giorni ci siamo dovuti spostare di tenda in tenda camminando su questo terreno infame. Mi hanno fatto male le gambe per quattro mesi dopo questa avventura. I detenuti che lavoravano al molo indossavano scarponi di legno e non restavano in vita più di ottanta giorni.”

La morte senza pena di morte e il bisnonno di Pushkin

L'imperatrice Elisabetta

È qui che Elizaveta Petrovna pianificò di iniziare a mandare i condannati a morte. Gli storici concordano sul fatto che quando salì al trono, l’imperatrice giurò di non giustiziare più i suoi sudditi, come reazione all’eccessiva crudeltà della precedente sovrana, Anna I di Russia (Anna Ioannovna). Durante i primi anni del regno di Elisabetta, l’esecuzione delle condanne a morte fu sospesa e nel 1746, quando visitò Rogervik, 110 assassini, 169 ladri recidivi e 151 condannati all’ergastolo erano rinchiusi nelle prigioni dell’impero. Il Senato, riferendo su di loro, suggerì che fossero mandati a Rogervik.

Nel 1752 fu emesso un decreto per esiliare qui per la costruzione del porto anche i falsari. Nel 1756 l’esilio a Rogervik divenne il destino generale di tutti i condannati a morte, per quelli che avevano avuto una “esecuzione politica” e per gli ergastolani. Con “esecuzione politica” (in russo: “политическая казнь”; “politícheskaja kazn”) si intendeva, sotto Elisabetta, quando il boia costringeva il condannato a mettere la testa sul ceppo, ma poi, invece di calare il colpo mortale, dava lettura formale del perdono della sovrana. Psicologicamente era molto traumatico, e comunque spesso non senza dolore fisico. Ai detenuti potevano strappare le narici, tagliare una mano, marchiarli a fuoco, picchiarli con la frusta o con bacchette di metallo. Se il condannato moriva per le conseguenze di tali punizioni, non era comunque considerata pena di morte.

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Dal 1754 l’“esecuzione politica” divenne più misericordiosa. Dopo l’annuncio formale del perdono, i condannati venivano puniti “con la flagellazione con il knut e il taglio delle narici, ma potevano cavarsela anche senza alcuna punizione corporale, solo con la deportazione a vita”. I detenuti venivano ancora marchiati, apponendo sui loro volti tre lettere: “B”, “O”, “P”, che formavano la parola “ladro” in russo. Il marchio, come è chiaro, rendeva priva di significato la fuga di un tale detenuto: anche se fosse riuscito a scappare, ben presto sarebbe stato identificato e catturato.

Un detenuto con le lettere K, A, T tatuate in volto, a indicare che era un

Erano queste persone a comporre i ranghi (circa 3.000 nuovi detenuti all’anno) che lavorarono a Rogervik negli ultimi anni del regno dell’imperatrice Elisabetta. “C’erano qui”, scrisse Andrej Bolotov, “[persone] di ogni tipo, ordine e grado: nobili, sì c’erano nobili, mercanti, artigiani, membri del clero e ogni tipo di gente meschina (contadini e sfaccendati), […] e oltre ai russi c’erano anche persone di altri popoli, c’erano francesi, tedeschi, tatari, čeremis [così venivano chiamati all’epoca i mari, un popolo finnico del Volga; ndr] e simili. Una morte dolorosa attendeva tutti al lavoro. E anche i soldati mandati a guardia dei detenuti percepivano questo servizio come gravoso”.

Nel 1762, Caterina la Grande scrisse: “Considero un necessità di Stato completare l’opera di Rogervik”. Nello stesso anno, l’imperatrice ribattezzò la città Baltijskij Port (ovvero: “Porto del Baltico”) e permise ai comuni cittadini di stabilirvisi. Pochi però lo desideravano, a causa del clima severo e della vicinanza del carcere, in cui continuavano a essere rinchiusi i prigionieri. La fortezza fu completata e nel 1755-1762. Fu il nonno di Pushkin di origini africane, Abram Petrovich Gannibal, a supervisionare la costruzione e a portarla alla conclusione. Tuttavia, il porto non venne mai utilizzato per scopi militari.

La città di Baltijskij Port (ovvero: “Porto del Baltico”) nel 1789

Caterina tornò già da imperatrice in città nel 1764. Dopo questa visita, venne presa la decisione finale: “Baltijskij Port dovrà essere utilizzato solo per il ricovero delle navi, tuttavia, il resto dei fondi stanziati dovranno essere utilizzati per costruire un nuovo porto di pietra a Revel”.

Nel 1768, quando i lavori furono definitivamente interrotti, per la costruzione del porto, che non entrò mai in funzione, erano già stati spesi (dal 1718) quasi mezzo milione di rubli (a quel tempo, tutte le entrate di bilancio del Paese ammontavano a circa 15-16 milioni rubli annui). Insomma, enormi fondi erano stati letteralmente buttati via. Dal 1789, i residenti locali iniziarono a tenere il bestiame nell’edificio della fortezza. La diga foranea, della quale erano riusciti a costruire solo 383 metri, affondò gradualmente sott’acqua e formò un fondale basso. I detenuti superstiti furono trasferiti in Siberia.

Gli edifici della prigione vennero poi usati per i prigionieri condannati all’ergastolo: il compagno di lotta di Pugachjov nella grande rivolta contadina, il baschiro Salavat Julaev, finì qui i suoi giorni insieme a suo padre e a molti altri partecipanti alla ribellione. Nel 1800 ne erano rimasti in vita 12. La città perse gradualmente la sua importanza: nel 1825, ad esempio, qui vivevano solo 184 persone. Solo con l’arrivo della ferrovia a Baltiiskij Port (1870) la vita iniziò più o meno a riprendersi.


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