L’ultima volta che è stata eseguita la pena di morte in Russia è stato più di vent’anni fa, nel 1996. Secondo alcune fonti, l’ultima persona ad essere giustiziata è stata il serial killer Sergej Golovkin, condannato per lo stupro e l’uccisione di oltre 30 bambini. Sarebbe stato fucilato nell’agosto di quell’anno.
Altre fonti sostengono invece che un altro criminale, di cui non si sa il nome, sia stato l’ultimo ad essere giustiziato, nel settembre 1996. In ogni caso, nell’aprile del 1997, la Russia, entrando nel Consiglio d’Europa (un’organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali, e che è estraneo all’Unione europea), ha firmato il Protocollo n. 6 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che vieta l’attuazione della pena di morte in tempo di pace. Da allora, in Russia vige una moratoria sulla pena capitale.
Ma vent’anni senza la pena di morte sono un piccolo periodo di tempo rispetto ai secoli durante i quali lo Stato russo, in una forma o nell’altra, ha puntualmente eliminato coloro che commettevano crimini più o meno gravi o erano considerati indesiderati dalle autorità. Cerchiamo di ricostruire chi veniva messo a morte, per quali crimini, e come veniva eseguita la pena capitale nei diversi periodi storici.
Esecuzioni in outsourcing
Come in tutto il mondo, le persone furono messe a morte in Russia fin dai tempi antichi. Nel Medioevo, quando al posto del sistema legale erano in uso le consuetudini del clan o della tribù, le vendette di sangue erano la norma: in caso di omicidio, la famiglia della vittima aveva il diritto di togliere la vita all’assassino.
La prima traccia di una legge slava, il codice legislativo “Russkaja Pravda”, risalente al XIV secolo, proclamava: “Se un uomo uccide un uomo, si può vendicarsi del fratello su un fratello dell’assassino, o sul padre, o sul figlio, o su un cugino o su un figlio del fratello.” Le autorità preferivano non eseguire esecuzioni, ed era stabilito che, se la vittima non aveva parenti, l’omicida dovesse pagare una sanzione in denaro al tesoro del principe per riscattarsi dalla pena.
I metodi di esecuzione all’epoca non erano specificati dalla legislazione: a quanto risulta dalle cronache, tutto dipendeva dalla crudeltà e dalla fantasia sadica dei responsabili delle esecuzioni. Dopo che la Rus’ di Kiev adottò il cristianesimo nel 988, alcuni sacerdoti e indovini pagani, che si rifiutarono di convertirsi al cristianesimo, furono bruciati vivi. Il principe Izjaslav, dopo aver preso d’assalto Kiev, ordinò che 70 uomini fossero prima accecati e poi giustiziati. Chi aveva le armi decideva chi dovesse essere giustiziato e chi sarebbe stato risparmiato.
Sovrani spietati
Con l’aumentare del potere dei principi di Mosca, che avevano annesso sempre nuovi territori al loro granducato, la legge divenne maggiormente codificata, e questo ebbe un impatto sulla pena di morte. La Dvinskaja Ustanovnaja Gramota, un codice del 1398, stabiliva che i ladri recidivi, catturati per la terza volta, dovessero essere impiccati. E ora erano già le autorità centrali a occuparsi dell’esecuzione della pena e non le vittime del reato.
L’appetito vien mangiando, come si suol dire, e, con il passare del tempo, il Granducato di Mosca aumentò sempre più il numero di crimini punibili con la pena di morte. Il codice Sudebnik di Ivan III, del 1497, introdusse la pena di morte per “furto, rapina, omicidio o calunnia a scopo di estorsione”. Ma sotto Ivan III, anche chi era considerato indesiderabile da parte della autorità fu giustiziato: per esempio, gli “eretici” furono bruciati vivi.
Un sadico sul trono
Ma fu il nipote di Ivan III, Ivan IV, noto come Ivan il Terribile (che governò tra il 1533 e il 1584), a portare la pena di morte, così come la tortura, a un nuovo livello di barbarie. “Abbiamo sempre avuto la libertà di gratificare i nostri servi, nonché di ucciderli…”, scrisse il primo zar di Tutte le Russie, avendo in mente, nell’usare la parola “servi”, tutti i suoi “sudditi”. Durante il periodo dell’Oprichnina (una parte di territorio russo governato direttamente dallo zar, tra il 1565 e il 1572 con repressioni di massa) furono giustiziate almeno 4.500 persone.
Oltre alle consuete decapitazioni e impiccagioni, divenne molto diffusa la pratica dello squartamento: il corpo del “reo” veniva letteralmente fatto a pezzi. Se la pena era “lieve”, prima veniva tagliata la testa, per limitare la sofferenza; in caso contrario, la vittima veniva decapitata alla fine, in modo che potesse lungamente essere torturata dagli strazianti dolori. Veniva anche praticato l’impalamento: i carnefici migliori e più esperti avevano tutta un’arte che consisteva nel fatto che il palo non danneggiasse gli organi vitali, in modo da far risultare la morte più lenta e dolorosa. Per quanto riguarda i traditori, Ivan IV ordinò che fossero bolliti vivi in acqua o vino o fritti nell’olio fino alla morte.
Lo zar non disdegnava l’invenzione creativa di metodi di esecuzione particolarmente atroci. Pertanto, lo storico Vladimir Ignatov nel suo libro “Palachì i kazni v istorii Rossii i SSSR” (“I boia e le pene nella storia della Russia e dell’Urss”), scrive che “una volta lo zar ordinò che il voevoda Nikita Kazarinov, che aveva preso i voti monastici, fosse legato a un barile di polvere da sparo e fatto saltare in aria, visto che che i monaci erano angeli e quindi dovevano volare in cielo”.
Le pene al tempo dei Romanov
Dopo i disordini e l’anarchia del Periodo dei Torbidi (1598-1613), una nuova dinastia salì al potere in Russia, i Romanov, ma la tendenza all’aumento della codificazione e delle fattispecie in cui era prevista la pena di morte proseguì. Il Sobornoe ulozhenie, del 1649, la carta fondamentale della legge russa per i successivi 200 anni, ora prescriveva la pena di morte per 60 tipi di reato.
Tra le punizioni ufficialmente previste c’erano, ad esempio, il bruciare vivi per blasfemia. “Se qualcuno denigra Dio… il bestemmiatore, una volta esposto, dove essere arso vivo.” I falsari, gli apostati, gli stupratori, gli assassini e i ladri dovevano essere giustiziati. Per reati meno gravi, i colpevoli venivano fustigati con una speciale frusta conosciuta con il nome di “knut”.
Secondo la testimonianza del funzionario Grigorij Kotoshikhin, a Mosca erano attivi 50 boia di professione durante il regno di Alessio Mikhailovich (1645-1676), il secondo zar della dinastia Romanov. E certo non se ne stavano con le mani in mano. Secondo Kotoshikhin, durante il regno di Alessio furono giustiziate 7.000 persone.
Tanto sangue fu versato anche durante il regno del figlio di Alessio, Pietro il Grande (1682-1725). Dopo aver represso la rivolta degli Streltsy nel 1698, Pietro punì severamente la “vecchia guardia” zarista. Per 10 giorni, a Mosca proseguirono le esecuzioni degli Streltsy dopo brutali torture: secondo lo storico Nikolaj Kostomarov, “nella Piazza Rossa, quattro ebbero le braccia e le gambe spezzate con le ruote da tortura, altri furono decapitati e la maggioranza venne impiccata”. Pietro tagliò personalmente le teste di cinque Streltsy.
Una breve tregua
I successori di Pietro continuarono la pratica di eseguire esecuzioni spesso, e su larga scala, sebbene l’eccentricità di Ivan il Terribile fosse un ricordo del passato, visto che dal XVIII secolo c’erano principalmente decapitazioni, impiccagioni e fucilazioni da parte di plotoni di esecuzione. Tutto cambiò quando la figlia di Pietro, Elisabetta di Russia (Elizaveta Petrovna; che regnò dal 1741 al 1762) salì al trono. L’Imperatrice era una convinta avversaria della pena di morte e durante il suo regno non firmò neanche una sola condanna capitale.
Secondo la storica Elena Marasinova, la pia Elisabetta non voleva avere il peccato di omicidio sulla coscienza. “La moratoria sulla pena di morte in Russia non rifletteva gli ideali dell’illumismo, ma la religiosità medievale, da un lato, e, dall’altro, la convinzione dell’autocrate che la legge dello Stato e la sua volontà coincidessero”, afferma la Marasinova. Non fu di grande aiuto per i criminali condannati: erano marchiati a fuoco, veniva loro strappato il naso ed erano esiliati a vita e costretti ai lavori forzati.
Tuttavia, la pausa di vent’anni nelle esecuzioni svolse un ruolo enorme nell’umanizzare le autorità. “In soli due decenni, l’élite istruita al potere era già abbastanza pronta a discutere della legittimità o meno della pena capitale”, scrive Marasinova.
Successivamente, sotto i Romanov, furono giustiziati principalmente criminali politici che avevano attentato alla vita dell’Imperatore o minacciato il potere statale: tra cui Emeljan Pugachev, cinque leader della rivolta dei Decabristi e i rivoluzionari che assassinarono Alessandro II. Dal 1826 al 1905, solo 525 persone furono giustiziate in Russia. Tuttavia, il XX secolo pose fine a tale approccio umano.
La Guerra civile
Tra il 1905 (anno della prima Rivoluzione russa) e il 1910, il governo di Nicola II uccise oltre 3.700 persone, principalmente per impiccagione: è così che le autorità affrontarono le rivolte che attraversavano l’Impero. “La società russa mal tollerava quelle esecuzioni… Povera Russia, se solo avesse saputo cosa le stava aspettando!”, scrive Vladimir Ignatov.
In effetti, dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, che portò al potere i bolscevichi, la violenza raggiunse un livello completamente nuovo. Dopo aver abolito la pena di morte nell’ottobre 1917, già nel febbraio 1918, il governo di Lenin non aveva solo l’aveva reintrodotta, ma aveva anche permesso che i nemici di classe fossero giustiziati senza processo.
“Agenti nemici, speculatori, massacratori, teppisti, agitatori controrivoluzionari e spie devono essere uccisi sulla scena del delitto”, si legge nel Decreto-proclama “Sotsialisticheskoe otechestvo v opasnosti!” (“La patria socialista è in pericolo!”) del 18 febbraio 1918. E anche in base a un’altra ordinanza, il decreto sul “Terrore rosso” del 5 settembre di quell‘anno, chiunque fosse in qualche modo collegato alle forze anti-bolsceviche doveva essere ucciso.
“In seguito alla promulgazione del decreto sul terrore rosso, iniziò un’era di repressioni che non aveva precedenti nella storia”, sottolinea Ignatov. I bolscevichi cercarono di costruire una nuova società ideale e durante la Guerra civile (1918-1922) eliminarono sistematicamente chiunque non condividesse i loro ideali. È impossibile fornire una cifra precisa di quante persone siano state giustiziate durante quel periodo, soprattutto tenendo presente che i bolscevichi, così come i loro avversari, mettevano in atto esecuzioni senza processo o documentazione. Secondo stime diverse, le cifre variano da 50 mila a oltre un milione.
Boia da record
Dopo la relativa calma della seconda metà degli anni Venti, una nuova ondata di terrore colpì l’Urss negli anni Trenta, quando Stalin concentrò tutto il potere nelle sue mani. Secondo le stime più prudenti, tra il 1930 e il 1953 furono giustiziate più di 780.000 persone. In base alla legislazione del 1935, era consentito uccidere persone a partire dai 12 anni.
Durante questo periodo terribile, entrarono in scena dei super boia, membri dell’Ogpu /Nkvd /Mgb (tutti precursori del Kgb) che, giorno dopo giorno, eseguivano condanne a morte come in una catena di montaggio. Il tempo delle fantasie sadiche di Ivan il Terribile era finito: di regola, le persone che erano state arrestate venivano picchiate al momento della detenzione, torturate durante gli interrogatori, e poi giustiziate da un plotone di esecuzione (anche se alcuni erano ancora impiccati).
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Uno dei recordman più famosi tra i boia fu Vasilij Blokhin, che giustiziò personalmente diverse migliaia di persone (tra 5.000 e 15.000, secondo diverse stime). A quanto hanno ricordato i colleghi, per svolgere il sui compito, Blokhin si toglieva la sua uniforme dell’Nkvd per indossare una sorta di costume da boia: un grembiule di pelle, guanti di pelle e stivali alti. Blokhin ascese fino al rango di Generale della sicurezza dello Stato, e morì per cause naturali nel 1955.
“Va da sé che bevevamo vodka fino a stordirci. Qualunque cosa si possa dire, non era un lavoro facile. Eravamo così stanchi che, a volte, non riuscivamo quasi a stare in piedi. E ci lavavamo con acqua di colonia. Fino alla cintura. Altrimenti era impossibile liberarsi dell’odore di sangue e polvere da sparo”, così un subordinato di Blokhin ha ricordato il lavoro svolto. Molti agenti della Chekà (polizia segreta) non furono così fortunati come Blokhin: a causa delle continue purghe interne, essi stessi finirono spesso per passare dall’altro lato del plotone di esecuzione.
La fine della pena di morte
Dopo la morte di Stalin, nel 1953, la pena di morte fu eseguita in molte meno occasioni, ma durante tutto il periodo sovietico rimase uno strumento di controllo sulla società. Tra il 1962 e il 1989, gli organi giudiziari dell’Urss emisero oltre 24.000 condanne capitali, e poco meno di 2.500 di queste persone ottennero la grazia. Le esecuzioni avvenivano esclusivamente per fucilazione.
Nella nuova Russia, la pena capitale è stata applicata su una scala molto più piccola: ci sono state 163 condanne a morte tra il 1991 e il 1996. Da allora, come è già stato detto, è in vigore la moratoria. E il governo ha costantemente respinto la possibilità di reintrodurre la pena capitale. “Gli esperti ritengono che una punizione più severa non porti all’eradicazione del crimine o alla riduzione del livello del crimine”, ha spiegato Vladimir Putin nel 2013.
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