Sei motivi per i quali i mercati russi degli anni Novanta erano dei posti incredibili

Yurij Abramochkin/Sputnik
Immaginatevi, in assenza assoluta di regole, l’esplosione improvvisa della società dei consumi, dopo i decenni di penuria sovietica. Il risultato? Merci taroccate, speculatori di valuta e carrelli alimentari da far impallidire l’ufficio igiene

Quando crollò l’Unione Sovietica, con il collasso dell’economia socialista il libero mercato divenne legale. Prima di allora, eccetto alcune prime aperture introdotte con la Perestrojka, la vendita privata (che si trattasse di un paio di calzini fatti a mano o di una bottiglia di vodka) poteva portarti in prigione. Tutto cambiò velocissimamente, e già nel 1992 i mercati di strada erano diventati uno dei luoghi chiave della vita quotidiana e del tempo libero.

Presto, tuttavia, furono sostituiti da più civili e scintillanti centri commerciali e solo una manciata di quei mercati “selvaggi” (proprio come selvaggi erano in generale gli anni Novanta russi) riuscì a sopravvivere. Quell’atmosfera unica in cui avevano prosperato è però finita per sempre. Ecco perché.

1. Commercio spontaneo, senza regole

Man mano che merci di ogni tipo e qualità iniziarono a essere disponibili, i mercati crebbero come funghi. Riempirono spazi vuoti, strade, sottopassaggi, piazze, stadi (il più grande mercato di Mosca, per esempio, era allo stadio “Luzhnikì”, che fino a giugno del 1992 continuò a chiamarsi “Lenin”). Un vivace commercio iniziò persino dentro gli ospedali e le scuole.

Sembrava una versione post-sovietica del selvaggio West. I mercati improvvisati sorgevano letteralmente ovunque. Tutto ciò che serviva erano un banchetto o due. A volte, i venditori non si preoccupavano nemmeno di quello e vendevano direttamente dai camion. Cose come il rispetto delle norme sanitarie e un locale riscaldato non importavano a nessuno.

Il lato positivo era che gli acquirenti potevano per esempio vestirsi dalla testa ai piedi senza andare falliti; contrattare e trovare tutto ciò di cui avevano bisogno in un unico posto: dai ricambi auto ai cd pirata, al kompot fatto da qualche babushka. Nessun moderno centro commerciale potrà mai replicare quell’offerta merceologica.

2. Camerini di prova? Basta un cartone

Questa è una storia a parte. Nelle tende e sui camion non c’era niente che assomigliasse a un camerino per provarsi gli abiti. E così, dei grandi pezzi di cartone venivano disposti in un angolo relativamente appartato dove gli acquirenti potevano togliersi gli indumenti senza bagnarli o sporcarli (i mercati operavano sotto la pioggia, il nevischio e la neve). Per essere onesti, alcuni venditori erano abbastanza educati da appendere delle tende per nascondere un po’ meglio lo spettacolo da occhi indiscreti. Ma non era obbligatorio. A differenza del pezzo di cartone a terra…

3. Carrelli con gli alimenti

Ogni giorno, delle donne spingevano carrelli carichi di cibo e bevande attraverso le file di bancarelle, vendendo tè con limone e zucchero, panini, insalata russa e waffle con la sgushjonka. Tutti attendevano con impazienza il loro arrivo, sia i commercianti che gli acquirenti. L’insalata della babushka del carrello era sempre più saporita di qualsiasi cosa non vi foste portati da casa. Per molto tempo, tanti mercati non avevano altre strutture di ristorazione oltre a questi carrelli. Solo più tardi appariranno rudimentali “food court”: una fila di chioschi che servivano soprattutto bliny o shashlyk

4. Chelnòk, il mito degli anni Novanta

I chelnòk erano i supereroi dei mercati. Si spostavano da una città all’altra (e soprattutto da Paese a Paese per l’import) per acquistare merci, e potevano percorrere enormi distanze in un solo giorno. Non sembravano soffrire di stanchezza e avevano acquisito vaste reti di contatti. Negli anni Novanta, quasi tutti divennero “businessman” (nel senso russo della parola). Erano immediatamente riconoscibili per le enormi borse a scacchi che portavano ovunque andassero. Erano sempre pieni zeppi di merci e nei momenti di riposo, in attesa di un treno o di un aereo, potevano usare i borsoni per sedercisi o addirittura per dormirci su.

Sebbene con questi ingombranti bagagli non apparissero eccessivamente presentabili (ma chi lo era negli anni Novanta?), alcuni accumularono delle vere fortune.

5. Speculatori di valuta

In Unione Sovietica, anche con la valuta estera c’era lo stesso problema che con il commercio: venderla e comprarla e in certi periodi anche solo detenerla, era un crimine. Non sorprende, quindi, che i primissimi mercati fossero dotati di “uffici di cambio”: ossia uomini con un rotolo di denaro in tasca e un cartello “Buy $ / DM” al collo (DM erano i marchi tedeschi). Guardando indietro, sembra tutto, a dir poco, piuttosto sospetto, ma all’epoca funzionava così. Le persone con i cartelli al collo si radunavano agli ingressi del mercato e trascorrevano la giornata fumando e bevendo tè in attesa dei clienti.

6. Giacche di pelle e jeans turchi

L’uomo della strada sognava di possedere una giacca di pelle nera, un cappotto di montone, la mitica “dubljonka”, e più jeans possibili. Non c’erano soldi per comprare cose decenti di grandi marchi stranieri, quindi avevano successo gli articoli contraffatti a basso costo. La qualità era terribile, ma almeno erano economici. Venivano importati dai Paesi vicini da quegli stessi chelnokì di cui sopra. Le merci turche invasero i mercati e ne divennero il simbolo non ufficiale.

“Il mio amico Anton entrò nel commercio attraverso alcuni suoi conoscenti, uno dei quali importava merci con un vecchio pick-up Volvo. Noi fin dal mattino li mettevamo in vendita appendendoli su una struttura metallica allo stadio Luzhniki”, ricorda il giornalista Jurij Lvov. “Lo stand, alto come un uomo e mezzo lo chiamavamo ‘bedà’ (‘guaio’), un termine molto alla moda nella Russia di quei tempi. Questo era anche il nome dato al più diffuso modello di giacca di pelle da donna. Insieme a una versione più corta, che aveva il nome in codice di ‘polbedà’ (‘mezzo guaio’), era indossata da mezza Mosca”.

Era la stessa storia con tutto quello che era fatto di jeans. Non c’era nulla di sbagliato nel vestirsi di denim da capo ai piedi: pantaloni di jeans, giacca di jeans, e spesso, un cappellino di jeans.

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