In che modo Khrushchev fece fuori l’eredità di Stalin

Global Look Press; AP; russiainphoto.ru
Era stato un suo uomo di fiducia, ma dopo la morte del georgiano, il nuovo leader sovietico sposò la teoria della necessità della destalinizzazione e della denuncia del culto della personalità, e la applicò, con i due passaggi fondamentali: nel 1956 e nel 1961

“La morte di Stalin il 5 marzo 1953, causò l’unica reazione possibile tra l’élite sovietica: la gioia”, afferma il professor Rudolf Pikhoja, storico dell’Accademia delle scienze russa. La loro gioia non sorprende, prendendo in considerazione l’abitudine di Stalin di rinnovare l’apparato statale attraverso gravi repressioni.

Un giorno potevi appartenere al cerchio magico di Stalin e il giorno dopo trovarti di fronte al plotone di esecuzione. C’erano segni che Stalin stava per effettuare una nuova tornata di purghe, quindi non c’è da meravigliarsi se i suoi scagnozzi non si dolessero molto per la sua dipartita.

A quel tempo, “c’erano molte persone in Urss che credevano sinceramente in Stalin e vedevano la sua morte come una tragedia”, ricorda Pikhoja. Tanto che per i suoi funerali ci fu una sorta di isteria collettiva che causò anche diverse vittime. Prima della sua morte, Stalin era vicino a essere un dio vivente, con città e villaggi che portavano il suo nome, i suoi monumenti ovunque e sue citazioni riprodotte sui muri di tutta l’Urss. Dopo la sua morte, Stalin fu messo nel Mausoleo al fianco di Lenin. Chiunque venisse dopo doveva fare i conti con l’eredità di Stalin, che era però molto controversa.

Il dubbio amletico dei leader comunisti

Durante il regno di Stalin, furono giustiziate più di 780 mila persone e 3,8 milioni di persone vennero incarcerate (secondo le stime più prudenti), e molte di loro erano innocenti. Nascondere la verità sulle repressioni non era possibile, poiché la gente stava tornando a casa dai gulag e dalle prigioni. Il partito doveva dire qualcosa ad alta voce.

All’inizio, però, i leader che subentrarono dopo la morte di Stalin furono molto cauti, soppesando attentamente le loro parole. Poi, Nikita Khrushchev, che aveva concentrato il potere nelle sue mani dopo un iniziale triumvirato, iniziò a parlare del “culto della personalità”, ma solo in modo molto vago.

“Crediamo che il culto della personalità del compagno Stalin abbia danneggiato più di tutti lo stesso compagno Stalin. Il compagno Stalin era davvero una figura imponente, un geniale marxista. Ma anche a simili persone non dovrebbe essere concesso di godere del potere che aveva lui”, si espresse con una certa cautela Khrushchev nel 1954. Discorsi e slogan ufficiali citavano ancora Stalin come un grande leader e il successore ideologico di Lenin.

Bisognava prendere una decisione

Tutto cambiò nel 1956. Il partito istituì una commissione speciale segreta per indagare sulle dimensioni delle purghe degli anni Trenta. I risultati furono sorprendenti: 1,5 milioni di persone arrestate nel solo 1937-1938, di cui 680 mila fucilate. All’interno dei circoli dirigenti del partito iniziarono a porsi il problema: dovevano rendere pubbliche queste informazioni e dire chi si celava dietro le repressioni?

Il XX Congresso del Partito Comunista si stava avvicinando: quell’evento, che avrebbe riunito i membri di alto rango di tutto il Paese, poteva essere il luogo perfetto per denunciare Stalin. Tuttavia, la strategia era rischiosa: alcuni leader, tra cui il compagno di vecchia data di Stalin, Vjacheslav Molotov, lo consideravano un errore che avrebbe rovinato l’autorità del partito.

Ma la maggioranza decise di provarci. Un altro alto papavero, Anastas Mikojan, spiegò così la decisione di rivelare la verità sul ruolo di Stalin nelle repressioni: “Se non lo facciamo al Congresso e qualcuno lo farà in seguito, tutti avranno motivo di ritenerci responsabili dei crimini commessi.” In effetti, molti di loro erano davvero responsabili di quei crimini, avendo firmato innumerevoli ordini di esecuzione durante il periodo stalinista. Ma ora dovevano attribuire tutta la colpa al loro capo morto.

Khrushchev va all’attacco

L’ultimo giorno del Congresso, il 25 febbraio 1956, Khrushchev tenne un discorso non programmato, “Sul culto della personalità e le sue conseguenze”, dove colpì duramente l’eredità di Stalin. Per la prima volta nella storia, diverse centinaia di cittadini sovietici sentirono parlare di Stalin come della persona che aveva orchestrato le repressioni di massa. E fu uno choc.

“Il discorso non menzionò [le vittime della] collettivizzazione… e il terrore nei confronti dei popoli sovietici in generale. Secondo Khrushchev, l’obiettivo principale delle purghe erano i membri del partito e dell’esercito. I loro processi erano stati falsificati, le accuse contro di loro erano inventate, avevano confessato colpe non loro dopo la tortura, ed erano state fucilate da innocenti, e Stalin era personalmente dietro a tutto ciò”, ha commentato il giornalista Jurij Saprykin.

Khrushchev rimase in silenzio su molti argomenti, badandosi bene dal menzionare la propria responsabilità (o quella della direzione del partito). Tuttavia, il discorso fu un vero fulmine a ciel sereno.

Un idolo fatto a pezzi

Il “rapporto”, ufficialmente “segreto”, divenne molto rapidamente oggetto di discussione pubblica, poiché i delegati al XX Congresso diffusero la notizia in tutta l’Unione. Ciò sconvolse il mondo di milioni di sovietici, che erano cresciuti credendo che Stalin fosse un leader saggio ed equo, e non potevano nemmeno immaginare quanto fossero davvero state violente le purghe.

“Possiamo solo accogliere le ammissioni fatte nelle alte cerchie”, scrisse il critico letterario Igor Dedkov (1934-1994). “Ma quanto dolore, quanti dubbi rimangono ancora nell’anima! Decenni di feroci lotte di potere, migliaia di persone colpite e torturate, migliaia di anime spazzate via, e tutto con il pretesto delle idee più sante e più umane… Dov’è la via d’uscita?”

Poco dopo, numerosi prigionieri politici dell’era di Stalin furono riabilitati; il suo nome scomparve quasi completamente dai discorsi ufficiali e fu cancellato dall’inno nazionale sovietico (che nella versione del 1944 diceva: “Stalin ci educò alla dedizione verso il popolo, / Ci ispirò al lavoro e ad eroiche imprese!”). Ciononostante, Khrushchev agì con cautela, temendo disordini tra i sostenitori di Stalin: sospese la destalinizzazione e non criticò Stalin fino al 1961. Quell’anno, il cadavere di Stalin fu rimosso dal Mausoleo e sepolto vicino alle mura del Cremlino. Tutte le città e i villaggi che portavano il suo nome furono ribattezzati, tra cui Stalingrado, che tornò Volgograd. 

Il ritiro obbligato

Nel 1964, Nikita Khrushchev fu costretto a dimettersi, cedendo il potere a Leonid Brezhnev. Per tutto il lungo periodo brezhneviano (1964-1982), Stalin non fu né elogiato né criticato. “Sotto Khrushchev, stavamo corrompendo la nostra intellighenzia”, disse uno dei potenti statisti conservatori dell’era Breznev, Mikhail Suslov, alludendo, tra le altre cose, alla destalinizzazione.

Per un po’, Stalin e le sue epurazioni rimasero un argomento tabù in Urss, almeno a livello di funzionari di partito. Solo durante la Perestrojka di Gorbachev ebbe inizio una nuova ondata di riabilitazioni e gravi critiche ai crimini degli anni Trenta. Non a caso, uno dei principali architetti di quella nuova destalinizzazione, Aleksandr Jakovlev (che sarebbe poi rimasto a capo della Commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche fino alla morte, nel 2005), era tra quelli che avevano ascoltato il “rapporto segreto” di Khrushchev, a Mosca, nel 1956.

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