Com’è la vita di chi lavora sui treni della Transiberiana?

Il provodnìk (o provodnìtsa se donna) è la figura chiave del treno a lunga percorrenza russo: cuccettista e controllore, ma anche fine psicologo con i passeggeri difficili, è il capo assoluto del vagone. Ma come vive chi ha turni di due settimane tra andata e ritorno sulla tratta Mosca-Vladivostok?

La Transiberiana è la più lunga tratta ferroviaria al mondo: da Mosca a Vladivostok servono quasi sette giorni in treno per attraversare gli oltre 9 mila chilometri del percorso. Per molti passeggeri è un’esperienza troppo lunga da fare anche una sola volta nella vita. Eppure ci sono persone che vanno regolarmente avanti e indietro sulla Transiberiana, passando ogni volta in viaggio circa due settimane. Sono i provodnìk e le provodnìtsa (le donne sono più numerose in questa professione), ovvero un mix tra un controllore, un cuccettista e un tuttofare. In breve: i padroni incontrastati del vagone. Ma questo non è un mestiere per tutti. Chi sono queste persone e che caratteristiche devono avere? 

La famiglia dei ferrovieri 

Ogni volta il viaggio Mosca-Vladivostok-Mosca inizia in modo molto prosaico. Binari, fango, acqua, fumo, ressa, borse strapiene con i vestiti e le provviste che devono bastare al provodnik per due settimane. Solo molto più tardi arriveranno il Bajkal, le foreste di pini secolari, i possenti fiumi, i panorami infiniti e tutte le altre componenti romantiche di questa avventura ferroviaria senza pari.

Nel kupè, gli scompartimenti di seconda classe, hanno da poco fatto le pulizie. Il rivestimento azzurro dei sedili rende il tutto ancora più accogliente, e le luci personali sui letti hanno una luce calda, mentre lo specchio sulla porta riflette una donna curata sulla cinquantina. In passato provodnitsa e oggi capotreno, Irina Zolotenkova dice che tutta la sua vita è legata alle ferrovie. I suoi genitori erano ferrovieri e lei ha studiato in una speciale scuola delle ferrovie, e poi in un istituto ferroviario.

“Questa professione mi ha sempre attirata e così andai a seguire i corsi. Erano gli anni Novanta, quando non pagavano da nessuna parte, ma nelle Ferrovie si poteva guadagnarsi da vivere”, ricorda Irina. 

Fino all’inizio della guerra in Ucraina lavorava di solito sulla linea per Kiev, e dopo è passata sulla Transiberiana. Il lavoro è diventato più pesante e le trasferte molto più lunghe, ma Irina è contenta. Le chiedo come si faccia a sopportare il flusso continuo di passeggeri e il paesaggio che cambia costantemente fuori dal finestrino.

“Bisogna solo essere socievoli e pazienti. A volte, quando c’è qualche conflitto più acuto, meglio prendersi una piccola pausa, sedersi nello scompartimento e contare fino a cinque, pensando a come sia meglio comportarsi perché il viaggio sia confortevole per tutti”, dice la capotreno. Ci interrompe lo squillo del telefono. Una delle provodnitsa di un vagone chiama per dire che la sua collega con cui lavora di solito in coppia si è ammalata e che senza di lei non vuole partire neppure lei.

Irina sospira e mi spiega che è normale amministrazione. Di solito chi fa questo lavoro vuole sempre prestare servizio solo con chi conosce già e non accetta colleghi sconosciuti.

“È un po’ come le coppie di poliziotti, ride Irina. “È importante sentirsi le spalle coperte da una persona di cui ti fidi del tutto. I compagni fissi sul lavoro sono come la tua famiglia. Le coppie litigano, fanno la pace, ma comunque in un viaggio di due settimane sulla Transiberiana vogliono andare solo insieme”. Ne approfitto e le chiedo come la sua vera famiglia viva il fatto che lei è così a lungo lontana da casa.

“Sia mio marito, che i miei figli, e persino la mia futura nuora sono tutti ferrovieri. Mio marito si organizza in base ai miei turni, e quando torno dal servizio si prende dei giorni liberi. Quattro giorni al mese così siamo insieme”, racconta.

Le chiedo se fa in tempo a riposarsi dai viaggi, avendo tra l’uno e l’altro dieci giorni liberi. 

“I primi giorni riposi e fai qualcosina, poi inizi già ad avere nostalgia del lavoro”, dice lei, quando ci interrompe di nuovo una chiamata di lavoro. 

Come portare al sorriso il più agitato dei passeggeri 

Prima della partenza del convoglio, nel deposito ferroviario vanno e vengono i meccanici, varie persone sono indaffarate: lavano i vagoni e portano i sacchi con le lenzuola. Dopo il cambio del turno riesco a parlare al volo con Irina Bulatitskaja, che lavora come provodnitsa in coppia fissa con il marito. 

“Capita che attacchino i vagoni mezz’ora prima dell’uscita del treno per la stazione da cui partirà. Sono in pessime condizioni e abbiamo poco tempo per metterli in ordine. Se il vagone è sporco e freddo e se nel bollitore l’acqua non è già calda, si inizia con il piede sbagliato e i passeggeri sono scontenti fin dall’inizio, e tutte le conseguenze negative ricadono su di noi”, spiega Bulatitskaja. Ma il suo lavoro le piace. Cinque anni fa le è toccato lasciare tutto nella Donetsk in guerra e trasferirsi in Russia. Adesso ha 38 anni e da tre lavora in ferrovia. 

“Bisogna essere fini psicologi, per portare a sorridere anche i passeggeri più agitati. A volte ce ne sono di aggressivi. Sembra che non abbiano mai visto liquori prima di salire sul treno e ora non possano farne a meno. Capita che bevano come spugne. Mi hanno anche aggredito a pugni. Non molto tempo fa un passeggero ubriaco faceva chiasso e i vicini di posto sono venuti a lamentarsi. Gli ho chiesto una volta di fare meno rumore, gliel’ho chiesto due, e alla terza mi è saltato addosso. Per fortuna gli altri passeggeri lo hanno fermato. Poi è arrivata la polizia e l’ha fatto scendere dal treno”, racconta Irina, sorridendo come se raccontasse una barzelletta. 

“Per prima cosa bisogna avere dei nervi di ferro, per non mancare di rispetto a nessuno, e saper chiedere scusa quando serve, anche se sai di avere ragione al cento per cento. Anche perché se un passeggero scrive una lettera di protesta contro di te, possono persino licenziarti. Ma ora la situazione, in questo senso, è migliorata rispetto al passato, perché le Ferrovie usano la macchina della verità. Nel caso in cui ci sia un reclamo sul nostro comportamento, e noi diciamo di aver svolto il nostro servizio secondo le regole e di essere stati gentili, le nostre affermazioni vengono sottoposte alla macchina della verità”, spiega Irina.

“Lei, nelle situazioni di conflitto può anche contare sul marito…”, dico io. 

“No, semmai al contrario”, ride lei. “Per lui è difficile rapportarsi alle persone. Non ama i villani. All’inizio risponde educatamente, ma se poi escono completamente i gangheri, allora intervengo io. Ma con un marito al fianco è più facile lavorare dal punto di vista fisico. È lui a occuparsi dei pesanti sacchi con le lenzuola, è lui che spala il carbone nella caldaia, mentre io tengo pulito il vagone. Anche se a volte capita che il carbone finisca mentre lui dorme, e allora faccio da sola”.

“Fate un lavoro pesante e rischioso, e non vedete praticamente mai i vostri bambini. E inoltre rischiate il licenziamento a causa di qualche passeggero attaccabrighe. Almeno vi pagano bene?”, chiedo, cercando di capire quali siano le motivazioni di chi diventa cuccettista. 

“Lo stipendio dipende, come diciamo noi, ‘dalle ruote’. Quando girano, veniamo pagati. Ma tutto il tempo in cui prepariamo il vagone, lo puliamo e portiamo a bordo le lenzuola non viene computato. In totale prendiamo sui 30 mila rubli (410 euro). Pochino. Anche se volessi saltare i riposi, per totalizzare più chilometri percorsi, non me lo permetterebbero. Il computer calcola il sistema dei turni, affinché non capiti che iniziamo un nuovo viaggio stanchi morti dal precedente”, spiega.

Allora io chiedo: “Ma se le offrissero un lavoro tranquillo con una buona paga, lascerebbe le Ferrovie?”

“Dopo un viaggio, ovviamente si ha voglio di silenzio e tranquillità, ma dura due giorni. Poi inizia ad annoiarti stare a casa. Comincia a mancarti terribilmente il rumore ritmico del treno e il continuo mutare dei paesaggi fuori dal finestrino. Quest’anno ho fatto richiesta di ammissione a un corso universitario di qualificazione, per diventare ingegnere, ma a volte mi sembra già di non volerlo più fare. Mi basta già diventare capotreno, cosa per cui sto studiando. L’ingegnere non va in viaggio, e a me mi attira la vita sui binari”.

Una medicina contro la solitudine 

Vjacheslav Volodin ha 47 anni e già da quattro lavora come provodnik sulla Transiberiana, sebbene mai in vita sua prima avesse sognato di farlo. Un paio di giorni fa è tornato nella sua innevata città di provincia a 8.500 chilometri da Mosca. In un appartamento vuoto ha trascinato un enorme borsone con i panni sporchi accumulati nella prima metà di marzo, periodo durante il quale era in viaggio. Se li lava da solo, durante il periodo di riposo. 

Congedandosi dall’esercito, Volodin pensava di diventare elettromeccanico di treni. Ma prima di poterlo fare, per regolamento, bisogna aver lavorato alcuni anni come provodnik. Non vuole parlare della sua vita precedente e di cosa lo abbia portato a questo cambiamento che ha nettamente diviso la sua esistenza in un prima e in un dopo. Oggi nella sua vita c’è solo la Transiberiana. Anche lui lavora con una collega fissa, ma a differenza di tanti altri, accetta spesso di andare in servizio come sostituto con colleghi a caso. 

“All’inizio guardavamo dal finestrino, fotografavamo il Bajkal. Ora, a parte la piattaforma d’accesso e la toilette, non vediamo nient’altro. Quando c’è da fare le pulizie, quando da controllare il biglietto a un nuovo passeggero, quando inizia una sezione della tratta dove il vagone non si può riscaldare elettricamente e bisogna spalare il carbone nella caldaia…”, racconta Vjacheslav. 

Inizia poi a ricordare gli stranieri al tempo dei Mondiali 2018, e si ravviva. 

“Per esempio, i peruviani andavano scalzi. E non c’era modo di convincerli a mettersi le ciabatte, quantomeno per andare alla toilette. E come sapete, basta solo che uno vada a lavarsi, e là c’è già una palude…”, racconta. 

Vjacheslav, come molti suoi colleghi, non parla molto bene l’inglese, e si ferma alle conoscenze scolastiche. Quando non sono sufficienti, passa ai gesti. Il numero della cuccetta può essere indicato con il dito sul biglietto o si può accompagnare il passeggero straniero fino al suo posto e mostrarglielo. 

“La cosa più difficile da spiegare è che nelle nostre toilette chimiche non si può gettare niente. I cinesi li riuniamo e li portiamo tutti insieme al bagno, mostrando loro che la carta va buttata nell’apposito cestino”, sorride il provodnik. 

“E con i russi come va?”, chiedo io. “Mi hanno già raccontato degli ubriachi e di chi fuma nonostante i divieti, ma immagino che non siano tutti così…”. 

“Capitano anche quelli, ma per fortuna la maggioranza è di persone per bene. A volte, con quelli che vanno da Mosca fino a Vladivostok, alla fine si instaura una certa familiarità”, ride Vjacheslav. “Qualche tempo fa una coppia, marito e moglie, andava a Irkutsk e abbiamo fatto amicizia. Mi hanno detto: ‘Se quando sei a Irkutsk hai bisogno di qualcosa, chiamaci e te lo portiamo, ti prepariamo pure le polpette, se ne hai voglia’”.

Verso la fine della nostra chiacchierata, emerge che per Vjacheslav fare il provodnik non è solo un lavoro. Anche se dice che è solo routine, sembra che i passeggeri siano per lui i sostituti della famiglia che non ha. Da qui al prossimo viaggio gli rimane quasi un’intera settimana di riposo, ma sa che ben prima inizierà ad avere nostalgia del lavoro. 

“Stare a casa due settimane è troppo per me. Non so che fare. Fai l’abitudine a stare in treno, e dopo a casa è dura”, conclude.

 

Ecco perchéNON dovete fare la Transiberiana 

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