Queste persone abituate a volare nello spazio, preparatissime a livello scientifico, non ammetterebbero mai di essere superstiziose. In effetti non avranno magari paura del venerdì 17 o dei gatti neri. Ma come definire se non superstizione i rituali che vengono ripetuti ogni volta prima, durante e dopo un volo spaziale? “Sono solo portafortuna”, minimizzano. Ma vediamo più nel dettaglio cosa fanno i cosmonauti.
Se il lancio spaziale avviene in una stagione calda dell’anno, prima del conto alla rovescia i cosmonauti piantano un albero. Nel giardino dell’albergo “Kosmonavt” del cosmodromo di Bajkonur ormai c’è un intero viale alberato, messo a dimora tanto dai membri degli equipaggi russi, tanto dagli astronauti stranieri partiti da qui. In una intervista, la prima donna nello spazio, Valentina Tereshkova, ha raccontato che vengono dedicate particolari cure all’albero piantato da Jurij Gagarin.
Il cosmonauta, eroe della Russia, Aleksandr Misurkin, tornato appena un anno fa dallo spazio, ha raccontato a Russia Beyond che prima del decollo gli fa sempre piacere piantare un albero, o, quantomeno, annaffiarne uno di quelli già piantati.
“Dopo la seconda prova dello scafandro, i cosmonauti vengono sempre da noi al museo. Avviene 4 o 5 giorni prima dello start”, ha raccontato in un’intervista all’agenzia Tass la direttrice del Museo di Bajkonur Antonina Bogdanova.
La tradizione ha avuto inizio nel 1983 e, da allora in poi, per i cosmonauti l’escursione è immancabile. Là visitano la navicella spaziale “Buran”, entrano nella casetta dove dormì Jurij Gagarin e non si perdono lo studio del grande progettista Sergej Koroljov.
“Prima del lancio, con grandissimo piacere guardiamo il film ‘Sole bianco del deserto’”, racconta Misurkin.
Secondo una teoria consolidata, la prima volta lo guardarono, alla vigilia del decollo, i membri dell’equipaggio della Sojuz-12 Vasilij Lazarev e Oleg Makarov nel 1973 (il film, del regista Vladimir Motyl, è del 1970). Dopo essere riatterrati con successo, i due scherzarono sul fatto che con loro c’era un terzo membro dell’equipaggio, il compagno Sukhov (protagonista del film), che aveva persino dato loro coraggio nei momenti più difficili. Da allora si ritiene che la visione del film porti fortuna.
Il cosmonauta, eroe della Russia, Fjodor Jurchikhin, che è stato cinque volte nello spazio, ha raccontato a Russia Beyond che la nascita della tradizione ha anche un significato più pratico. “Con questa pellicola i cosmonauti studiavano le tecniche di ripresa video. In passato non c’erano le videocamere. Si andava nello spazio con cineprese e pellicole e durante il volo non era certo possibile svilupparle né quindi valutare la qualità del girato. Bisognava subito riprendere in modo corretto: saper regolare la luminosità, la messa a fuoco… E sapere come si fa il “montaggio in macchina”, alternando primi piani e piani lunghi, come si riprende un volto, e così via. Tutto questo i cosmonauti lo studiavano a terra usando questo film come esempio.
I cosmonauti navigati scherzavano con i novizi: finché non hai visto dieci volte “Sole bianco del deserto”, per lo spazio non sei pronto.
Jurchikhin ricorda anche un altro aneddoto: il film era materia di un particolare esame, teso ad aumentare l’attenzione per i dettagli: bisognava rispondere a domande molto precise e ripetere alla lettera alcune frasi. Per esempio, nella pellicola c’è una famosa scena ironica in cui Vereshchagin guarda nauseato a un gran vassoio di caviale, unica cosa che gli viene sempre proposta come cibo, e sogna un po’ di pane. Alla domanda “Quale caviale dice di non poter più mangiare Vereshchagin”, non bisognava rispondere “nero”, ma con l’aggettivo che usa lui “maledetto”. O alla domanda “Quanto costa Sukhov?” c’era da ricordare la frase pronunciata in uno dei dialoghi: “Sukhov, tu costi quanto un intero plotone”. C’erano poi altre domande del tipo “Quanti bottoni ha la camicia di Sukhov?” o “Che pistola ha Abdullah?”.
È ormai consolidata l’abitudine di accompagnare i cosmonauti alla navicella spaziale con le note di “Travà u doma” (“L’erba di casa”), un vecchio successo del gruppo “Zemljane” (“I terrestri”), risalente al 1983. Nel 2009 la canzone è stata addirittura elevata da Roscosmos al rango di inno della cosmonautica russa.
Il testo della canzone parla dei cosmonauti che, guardando dall’oblò della navicella spaziale la Terra lontana, sognano non certo il rombo del cosmodromo o il gelido blu della galassia, ma l’erba, la verde erba vicino a casa.
“Questa canzone è stata interpretata da vari cantanti, ma io chiedevo sempre di metterla nella versione di Igor Romanov (quella del gruppo Zemljane, ndr)”, ha detto a Russia Beyond Jurchikhin.
Sì sì, non in senso figurato. Quando l’equipaggio in tuta spaziale inizia a salire la scaletta che porta all’ascensore che conduce alla navicella spaziale, i cosmonauti sono accompagnati da tre persone: il capoprogettista, il capo del gruppo dei tecnici e il direttore di Roscosmos. Uno di loro deve, all’improvviso, dare una ginocchiata, non troppo forte ma abbastanza decisa, nel didietro dei cosmonauti, come una sorta di simbolico aiuto al decollo.
A quanto pare, questa tradizione risale addirittura a Jurij Gagarin, che decise di fare la pipì prima di salire a bordo, perché dopo la chiusura nello scafandro avrebbe avuto modo di rifarla solo dopo molte ore.
I cosmonauti sono persone ben educate e non hanno voluto commentare con noi questa tradizione. Solo in un’intervista, il cosmonauta Maksim Suraev ha parlato “di una certa sosta rituale, quando si va verso il razzo vettore”.
Aleksandr Misurkin scherza sul fatto che la tradizione principale sta nel fatto che i cosmonauti di riserva devono dipingere il razzo per l’equipaggio principale. “Quando siamo stati la prima volta a Bajkonur, la nostra attenzione fu attirata dal fatto che due giorni prima il razzo era verde o grigio. E adesso, al momento del decollo, era bianco. Ci chiesero se sapevamo il perché. “Perché i sostituti lo dipingono per l’equipaggio principale”.
In realtà, spiega Misurkin, la spiegazione è scientifica. Il razzo è riempito con componenti super raffreddati di combustibile, e una sottile crosta di ghiaccio si forma sulla superficie esterna. Il razzo diventa bianco per questo motivo.
Fjodor Jurchikhin ha raccontato di avere una sua tradizione personale: portarsi a bordo un amico: un cane pupazzo. “Non è né un talismano né un un portafortuna”, spiega il cosmonauta, “ma durante i voli ha giocato un ruolo importante”. Il cane serviva da primo indicatore visuale della mancanza di gravità.
“E non solo l’ho portato in tutti e cinque i viaggi nello spazio; il cane era con me anche durante l’ascesa al Monte Elbrus”, ha raccontato Jurchikhin
Nei lunghi mesi sulla stazione spaziale internazionale, i cosmonauti provano nostalgia di casa. Per questo, passare insieme il tempo è molto importante anche all’interno del gruppo internazionale in orbita. “Non la chiamerei una tradizione, ma di sicuro almeno una volta a settimana, se non due, ci riuniamo per una bella cena in comune e per guardare un film”, ha detto Aleksandr Misurkin.
La data è considerata infausta perché per ben due volte ci sono stati incidenti. Il 24 ottobre 1960 esplose al momento dello start il missile balistico MBR R-16, uccidendo 78 persone, e il 24 ottobre 1963, per un incendio al missile balistico R-9A, morirono 8 persone. Così in questo giorno, il lavoro al cosmodromo si ferma, si ricordano i caduti per la conquista del cosmo, e non si programmano mai lanci in questa data.
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