Quanti modi ci sono di tradurre una poesia? Quanti universi si schiudono nella trasposizione di un verso da una lingua all’altra? Quanta frustrazione si cela dietro la ricerca di un corrispettivo di una rima? Nell’inseguimento della musicalità di un verso? Nel tendere chimericamente alla perfetta specularità di due lingue? Interrogativi non banali per gli artigiani dell’arte del tradurre; per coloro che dietro le quinte tessono le trame di una composizione già scritta da altri e allo stesso tempo ancora da scrivere, sulla quale volteggia l’eterno dilemma se privilegiare o meno una rima a discapito di un’altra, se seguire una suggestione ritmica o mantenersi fedeli a una resa più letterale del testo.
Interrogativi sviscerati da Alessandro Niero, professore di Letteratura russa all’Università di Bologna, traduttore (o “traduttologo”, come si definisce lui stesso con sagace ironia), che ha dato alle stampe “Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi” (Quodlibet Studio, pp. 384, € 28).
Un libro che, nato con l’auspicio di essere d’aiuto a coloro che si avvicinano alla traduzione poetica, si rivela una “collezione di esperienze”, come spiega l’autore, una raccolta “di casi dai quali un traduttore può evincere ‘lezioni’, perfino ex negativo”.
Non solo parole
Se è vero che “la poesia è intraducibile per definizione” e che “è possibile soltanto la trasposizione creatice”, come sosteneva Roman Jakobson, linguista, semiologo e traduttore russo naturalizzato statunitense, è altrettanto vero che è impossibile rinunciare al sogno di trasferire i componimenti di un poeta da una lingua a un’altra.
Per fortuna!, verrebbe da dire a noi lettori, visto che senza il lavoro troppo spesso non riconosciuto dei traduttori sarebbe impossibile gustare gli struggimenti dell’Onegin, l'unicità di Majakovskij, i versi criptici di Prigov.
Come abili alchimisti, i maestri del tradurre si trovano a trasmutare una lingua in un’altra giocando con le parole e coi versi, con le rime e le similitudini, e misurandosi con un background culturale, un contesto e una “sensibilità non natìa” non sempre di immediata comprensione per il pubblico straniero.
In questo complesso tentativo di avvicinarsi il più possibile al testo originale, i traduttori si muovono in un luogo che secondo Niero “non è né lo spazio culturale circoscritto dalla lingua di partenza né quello circoscritto dalla lingua di arrivo”: una sorta di “non-luogo” caratterizzato da un’ibridità di elementi che portano l’autore del libro a pensare che i versi tradotti debbano, alla fine dei conti, essere trattati “alla stregua di un vero e proprio genere letterario autonomo”. Una sfida incredibilmente ardua - la traduzione poetica - che genera composizioni finali molto diverse tra loro, tante quante le menti che le hanno partorite, accomunate da un’unica grande ambizione: tendere il più possibile e utopisticamente all’originale.
Poeti che traducono poeti
Partendo dal capolavoro per eccellenza della poesia russa, l’Onegin di Pushkin - una “macchina prodigiosamente complessa” di quartine di rime alternate, baciate e abbracciate - e spaziando dalle trasposizioni italiane di Afanasij Fet a quelle di Iosif Brodskij e Dmitrij Prigov, Niero disegna una panoramica profonda e precisa di alcuni tra i più importanti casi letterari ascrivibili al mondo della traduzione poetica; per farlo, prende in prestito le trasposizioni più esemplari create dall’800 ad oggi; risale addirittura a un “Eugenio Anieghin” apparso in italiano nel 1856, cioè a soli 17 anni dalla morte del genio russo, tradotto in prosa dal poeta e traduttore italo-francese Luigi (Louis) Delâtre (1815-1893) che, come fa notare Niero, “si muove piuttosto liberamente rispetto all’originale”, sbizzarrendosi con personalissime licenze per rendere il capolavoro di Pushkin “più accetto al pubblico”.
In questo viaggio linguistico Niero si avvale poi di case studies emblematici e dei testi di alcuni giganti della traduzione come Ettore Lo Gatto, Giovanni Giudici, Renato Poggioli e Angelo Maria Ripellino, che in alcuni casi hanno segnato la storia della traduzione producendo trasposizioni di egual grandezza rispetto al testo originale; e non manca di analizzare anche le fatiche di traduttori più recenti, compiendo poi un processo di autoanalisi, come suggerisce il sottotitolo del libro, portando ad esempio i lavori (brillantemente) realizzati da se stesso.
Il futuro della traduzione
“Era da tempo che sentivo il bisogno di riprendere, rielaborare e sistematizzare in un volume ciò che avevo scritto in precedenza sulla traduzione poetica - spiega l’autore -. Mi piacerebbe che dal libro emergesse, se ancora non fosse chiaro, la varietà del mondo della traduzione poetica, quali e quanti risvolti culturali e editoriali (e latamente umani) vi si contino”. Perché la traduzione poetica, ben più di quella letteraria, travalica la pura sfera linguistica per sconfinare nel mondo soggettivo della sensibilità personale, dell’estro creativo di un autore che ben prima di essere traduttore è egli stesso poeta.
Ma quale strada prenderà la traduzione poetica in un mondo dove le macchine stanno ottenendo sempre maggior protagonismo, paradossalmente anche nella sfera linguistica? “Sono sempre più inquietato da ciò che offre la rete - dice Niero -. Vedo che alcuni programmi di traduzione automatica iniziano a essere così evoluti da riuscire a suggerire soluzioni non sempre scartabili anche per chi si occupa di traduzione poetica. Va da sé che il valore aggiunto di quest’ultima sta proprio nella tornitura delle sfumature, in certi guizzi che un computer non può, almeno per ora, avere. In termini di assistenza, però, certi strumenti moderni sono di grande utilità, anche perché i testi poetici non sono sempre fatti di materia nobile e l’esattezza del lessico può essere raggiunta anche per vie meccaniche. Immagino un futuro in cui lo sforzo – pur sempre grande e tecnicamente iperevoluto – del traduttore sarà di rifinire ciò che è stato sgrossato da una macchina freddamente intelligente (e perfino “colta”, se si vuole). Ma forse sono troppo catastrofista o, direbbe qualcuno, troppo ottimista”.
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