È l’unica tra le “amazzoni dell’avanguardia” che ha dato vita a una corrente propria di modernismo, nota come “tsvetopis”. Il termine manca di una traduzione nella storia dell’arte occidentale, ma “tsvet” in russo significa “colore”, e si tratta in effetti di una teoria che prevede la supremazia del colore nella composizione artistica, laddove nel suprematismo di Kazimir Malevich (1879-1935) la composizione si basava principalmente sulle forme.
Come altri artisti dell’avanguardia russa, Rozanova sperimentò molto vari nuovi filoni artistici, prima di trovare il suo stile. Ebbe anche un periodo futurista e insieme con il suo amato (che sposò nel 1912), il poeta Aleksej Kruchjonych (1886-1968), inventarono il “libro futurista”, nel quale testo e immagini si univano in una cosa sola. Il loro lavoro più noto in comune fu l’album in bianco e nero “Vojnà” (“Guerra”). Poi per un breve periodo la Rozanova entrò nel gruppo “Supremus” di Malevich. Nel 1917 dipinse i suoi capolavori “Riga verde” e “Composizione astratta”, che anticiparono di alcuni decenni l’espressionismo astratto di Mark Rothko (1903-1970) e Barnett Newman (1905-1970).
Moglie e compagna d’arte dell’avanguardista Aleksandr Rodchenko (1891-1956), la Stepanova è tra i fondatori del costruttivismo. Nel 1921 lasciò completamente la pittura, accusata dai costruttivisti di essere un’occupazione borghese, e dedicò il suo talento a un’“arte utile”, il design, soprattutto nel campo dell’abbigliamento. Divenne una degli inventori dell’abbigliamento industriale, che era basato su un’unica forma, che cambiava a seconda delle esigenze professionali. Insieme a Ljubov Popova (1889-1924), nei primi anni Venti, lavorò nella Fabbrica moscovita di stampa su tessuto, dove sviluppò ornamenti per tessuti nello spirito delle avanguardie.
Fu una dei primi esponenti della pittura russa a passare all’arte astratta. Conobbe il cubismo nell’anno della sua apparizione, durante una visita a Parigi nel 1907, nel corso della quale incontrò Picasso (1881-1973), Georges Braque (1882-1963) e Guillaume Apollinaire (1880-1918). Ebbe una fase di infatuazione per il cubismo, durante la quale si fece conoscere soprattutto per i suoi paesaggi cubofuturisti di panorami d’Italia. Nel 1917 passò alla pittura astratta, distinguendosi per l’attenzione al colore e al dinamismo. Anche scenografa e costumista, realizzò splendidi progetti per il Teatro da Camera di Mosca, portando il cubismo sul palcoscenico.
Nella sua produzione artistica sono molto forti i riverberi dell’Art Nouveau. Le protagoniste dei suoi ritratti sono l’incarnazione della bellezza e della poesia dell’Epoca d’argento. Romantiche e serene, sembrano vivere fuori dalle tempeste della vita, in un mondo di eterna femminilità, dove non risuona il rumore angosciante delle rivoluzioni e delle guerre. Allo stesso tempo, invece, l’artista stessa è passata attraverso le macine della storia. Subito dopo la rivoluzione, perse il marito Boris, morto per il tifo contratto nelle carceri bolsceviche. Con quattro figli e la madre malata rimase senza entrate. Nel 1924, andò a Parigi, dove le era stato commissionato un grande murales decorativo, ma non le permisero di rientrare in Unione Sovietica. I due figli più piccoli, dopo due e quattro anni di attesa, poterono raggiungerla, mentre con i più grandi poté riabbracciarsi solo nel 1960, dopo 36 anni di separazione. Le opere più famose della Serebrjakova sono probabilmente l’autoritratto “Al tavolo da toletta”, e “Il candeggio della tela” dal ciclo contadino.
La “suffragetta dell’arte russa” ai nostri giorni è diventata la pittrice russa più cara, visto che all’asta le sue opere hanno toccato i 6,5 milioni di sterline. Nella sua arte si fondono e vengono rielaborati neoprimitivismo, tradizionale pittura di icone e le più nuove tendenze pittoriche delle avanguardie.
Dando un nuovo significato alla pittura religiosa, Goncharova ne ha creata una versione moderna nella sua serie contadina. Nella sua giovinezza, partecipò alle azioni dei futuristi, e recitò persino nei loro film-azione, a seno nudo. Dopo la Rivoluzione, si trasferì con suo marito Mikhail Larionov (1881-1964) a Parigi, dove lavorerà principalmente in campo teatrale, nelle “Stagioni russe” di Mikhail Djagilev.
Dopo essere passata per il cubofuturismo e il suprematismo, Ljubov Popova trovò la sua definitiva collocazione nel costruttivismo. Nel 1921 insieme ad altro membri del movimento si dedicò alla “produzione di oggetti”. Scrisse: “L’attività dell’artista contemporaneo rientra inevitabilmente nei confini della produzione di oggetti di consumo”. Con Varvara Stepanova (1894-1958) si concentrò sulla produzione di abiti per l’industria. In quelli da lei disegnati erano molto sottolineati l’aspetto costruttivo e quello funzionale.
Un particolare taglio di tasche, cuciture, cinture e fibbie caratterizzava i diversi modelli: da operaio, pilota, agitatore politico e altre professioni “rivoluzionarie”.
Autrice di sculture monumentali, è una degli artisti che hanno dato vita al filone dello stile eroico nella scultura sovietica.
I suoi eroi sono i titani della nuova vita sovietica, i conquistatori della storia. Partecipò attivamente alla realizzazione del piano di propaganda monumentale varato negli anni Venti. Il suo lavoro principale resta la scultura “L’operaio e la kolchoziana”, realizzata per l’Expo di Parigi del 1937 e oggi visibile nel Parco VdnKh di Mosca (nonché riprodotta all’inizio della gran parte delle pellicole sovietiche, perché nel 1947 fu scelta dagli studi della Mosfilm come proprio simbolo). Dopo la Seconda guerra mondiale, Mukhina di dedicò ai ritratti dei membri dell’apparato sovietico.
L’arte della Nazarenko è diventata un simbolo degli anni Settanta e Ottanta. All’interno dei confini dell’arte realistica, è riuscita a incarnare le aspirazioni del suo tempo, esprimendo la voce dell’intellighenzia sovietica. Al centro della sua attenzione ci sono le sofferenze personali, la riflessività, la sensazione di insoddisfazione, la solitudine; tutte espresse attraverso la metafora e l’allegoria. Si interessa al proprio destino, al destino dei propri cari, alla vita della sua generazione. Nell’Urss, Nazarenko fu accusata di rappresentare la realtà in modo mostruoso, a causa del suo stile e del tratto grottesco con cui dipingeva i protagonisti dei suoi quadri.
È una delle poche pittrici donne ad aver fatto parte dei circoli dei non-conformisti; dell’arte non ufficiale dell’Urss. Negli anni Cinquanta si unì al Gruppo di Lianozovo (dal nome di una zona a nord di Mosca), del quale facevano parte poeti e pittori come Oskar Rabin (1928-2018), Genrikh Sapgir (1928-1999) e Vladimir Nemukhin (1925-2016). Con quest’ultimo, Lidija convisse 14 anni.
La Masterkova dipingeva nello stile dell’astrazione metafisica, conferendo alle forme geometriche un significato sacrale. Nelle sue composizioni utilizzava anche la tecnica del collage, inserendo nei quadri pezzi di trina, di broccato e di vecchi tessuti. Partecipò alla leggendaria “Mostra dei bulldozer” (una esibizione di opere che furono distrutte dalle autorità usando le ruspe), dopo di che, nel 1975, decise di emigrare a Parigi. È morta a Saint-Laurent-sur-Othain.
Negli anni Ottanta, Irina Nakhova entrò nel circolo del Concettualismo di Mosca. Fu la prima artista dell’Urss a dar vita a un’installazione totale nel suo appartamento di Mosca, “Komnaty” (“Stanze”) come esempio di genere “environment”. Nei primi anni Novanta si è trasferita negli Stati Uniti. Nelle sue installazioni utilizza diversi media: pittura, fotografia, collage, video. Una delle sue opere più famose è la gigantesca vagina dell’installazione “Stai con me”, che stringe lo spettatore nelle sue labbra. Nel 2015, ha rappresentato la Russia al padiglione nazionale alla Biennale di Venezia.
Odalisca principale dell’arte moderna russa, esplora il destino delle donne dell’Oriente nel mondo moderno. La sua arte brilla per la tensione che sorge al confine tra Oriente e Occidente, tradizione e modernità, eternità e momentaneità. Le sue bellezze orientali vivono in un mondo di agiatezza e tentazione, nascondendo la sensualità esplosiva dietro l’hijab. Ultimamente, Salakhova ha lasciato la pittura per la scultura, scolpendo i simboli del suo universo artistico dal marmo di Carrara, tra cui minareti fallici e Ka’ba con elementi vaginali.
Da ironica scienziata della cultura post-sovietica, Korina scansiona con grande esattezza il quadro della vita moderna russa. Lavora nei generi dell’installazione e degli art object, con l’abilità di uno scenografo che organizza luce, suono e spazi. Ma la voce principale nel coro di mezzi espressivi che usa è la texture. L’artista sente i materiali in modo così sottile, che nella combinazione di borse di tela cerata, tegole, metallo ondulato, rivestimenti, laminati, sacchetti e ritagli di carta da parati, che usa nelle sue opere, il nostro tempo è delineato in tutti i suoi segni. Ha esposto in molti musei del mondo e ha partecipato al Padiglione principale della Biennale di Venezia del 2017.
La Chernysheva lavora in diversi generi: pittura, grafica, fotografia, ma a darle la fama maggiore sono state le sue opere di video arte. La sua tesi al Vgik (l’Università statale pan-russa di cinematografia, che dal 1986 è intitolata a Sergej Gerasimov) era dedicata a Pavel Fedotov (1815-1852), l’artista russo più sarcastico del XIX secolo. Da allora, lo spirito di Fedotov non la lascia. È un’attenta e ironica osservatrice della vita post-sovietica con tutte le sue speranze, i suoi sogni traditi e le sue contraddizioni. Olga Chernysheva è uno degli artisti russi più esposti in Occidente e l’unica a essere inclusa nel nuovo libro “Women artists” della casa editrice britannica Thames & Hudson.
Anna (il cui vero cognome è Zheludkovskaja) è un’artista che poetizza la “bellezza dello squallore”. La sua attenzione è calamitata dagli oggetti più prosaici che ci circondano nella vita di tutti i giorni. E vecchi bidoni abbandonati, pentole, bollitori e ferri da stiro sono diventati i protagonisti della sua arte, prima nella pittura e poi nelle sculture, che crea utilizzando metallo piegato. La Zhjolud (il suo pseudonimo significa “ghianda”) lascia solo scheletri di cose, così che, avendo perso la loro carne di ferro, si trasformano nell’idea dell’oggetto, in un suo sosia che ha dimenticato il suo scopo pratico quotidiano. Ha partecipato con il progetto “Comunicazioni” al Padiglione principale della 53esima Biennale di Venezia, nel 2009.
La Makhacheva ha dedicato la sua arte allo studio di come le antiche tradizioni e i rituali ancestrali siano presenti nella moderna cultura del Daghestan, una repubblica caucasica della Federazione Russa. Laureata al Goldsmiths e al King’s College di Londra, lavora nel genere della video art, creando storie e soggetti carichi di ironia e raccogliendo storie di vita. Per l’immagine del supereroe femminile SuperTaus nel progetto “Senza Titolo 2”, la Makhacheva ha ricevuto il premio russo Kandinskij nel 2016.
Dieci nomi nuovi che stanno definendo il futuro dell’arte russa
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