Peshmerga si preparano a sferrare l'attacco contro lo Stato Islamico vicino a Mosul, Iraq.
: ReutersL’inizio delle operazioni per la liberazione di Mosul, dal giugno 2014 sotto il controllo dei combattenti dell’Isis, è stato annunciato il 17 ottobre dal primo ministro iracheno Haider al Abadi. Il numero di civili rimasti a Mosul, su una popolazione di 1 milione e 500mila abitanti, è stimato in 700mila e quello dei combattenti in 5mila su 10mila. Nelle operazioni sono coinvolte 60mila unità, tra soldati dell’esercito iracheno, milizie sciite e sunnite e peshmerga curdi. A supportarli dal cielo sono le forze aeree della coalizione internazionale antiterrorismo guidata dagli Stati Uniti.
“L’ora della grande vittoria è vicina”, ha dichiarato Haider al Abadi, commentando l’offensiva su Mosul. Ma a una settimana dall’inizio delle operazioni sono sorte delle gravi difficoltà. Al Abadi e il presidente turco Recep Erdogan sono entrati subito in conflitto riguardo alla partecipazione dell’esercito turco all’offensiva su Mosul. Come se non bastasse, l’Isis sta effettuando dei contrattacchi nelle città già liberate. Il candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, ha già avuto modo di definire l’offensiva degli Usa e dei loro alleati su Mosul come un “totale disastro”.
La popolazione dell’Iraq è stimata in 37-38 milioni di abitanti, la maggioranza dei quali (75-80%) è costituita da arabi; i curdi rappresentano la minoranza etnica più numerosa (15-20%) e si concentrano nell’Iraq settentrionale e nel Kurdistan iracheno, dall’inizio della guerra civile di fatto indipendente da Baghdad
L’esperto militare Vladimir Evseev, vice direttore dell’Istituto di studi sui Paesi della Csi, ritiene che la preponderanza della coalizione sul piano numerico non sia un elemento decisivo. “I curdi non hanno intenzione di attaccare Mosul - dichiara Evseev -. Si sono limitati a occupare i territori nei dintorni della città dove vivono i loro connazionali e non andranno oltre. I miliziani sciiti di al Abadi non li fanno entrare a Mosul per evitare delle carneficine. Quanto ai turchi, che sono la forza con maggiore capacità militare, non attaccheranno per evitare perdite di vite umane”.
Una rifugiata irachena. Fonte: AFP / East News
A detta di Evseev, resta soltanto l’esercito regolare iracheno, tra le cui file dilaga la corruzione e alto è il numero dei disertori. “Ad attaccare saranno solo 30mila delle 60mila unità dichiarate, e forse anche meno”, dice Evseev nell’intervista concessa a Rbth. “In un contesto urbano dove ci sono infrastrutture come quelle realizzate dall’Isis, con simili forze è impossibile impadronirsi della città”. Inoltre, a Mosul è stato lasciato scoperto il fianco ovest, il che permette ai combattenti di ricevere rinforzi. “Per le elezioni presidenziali dell’8 novembre non verrà di certo assicurata una vittoria, a differenza di quanto era stato preventivato dagli Stati Uniti”, sostiene Evseev.
L’arabista Leonid Isaev, titolare della cattedra di Politologia presso l’Università internazionale di Ricerca dell’Alta Scuola di Economia di Mosca, ritiene che si preannuncia una lunga battaglia “dapprima per conquistare la provincia, poi i centri abitati intorno a Mosul e quindi ogni quartiere della città”. La battaglia per Mosul, a suo avviso, promette di protrarsi per mesi, provocando un elevato numero di vittime.
L’Iraq è in larga maggioranza sciita (60-70% della popolazione), i sunniti rappresentano la minoranza religiosa prevalente (35-40%). L’Isis si professa di fede sunnita e considera gli sciiti degli eretici. L’Iraq settentrionale e, in particolare Mosul, sono abitati prevalentemente da sunniti
A detta degli esperti, persino nel caso in cui si arrivi a ottenere una vittoria sull’Isis in Iraq non potrà stabilirsi la pace. Con ogni probabilità, invece, potrebbe esplodere un nuovo conflitto confessionale o etnico. Isaev ricorda che negli ultimi due anni è spesso accaduto che i miliziani sciiti, dopo aver liberato dall’Isis i villaggi sunniti, hanno semplicemente sgozzato gli abitanti accusati di “aver collaborato col nemico”. Anche i curdi hanno i propri interessi da salvaguardare: liberando le regioni dell’Iraq settentrionale dall’Isis si espandono territorialmente, cacciando gli arabi dai loro villaggi e insediando al loro posto dei profughi curdi.
A detta dell’esperto, un’altra questione non meno contingente della lotta contro l’Isis è come organizzare la vita a Mosul una volta conclusa la guerra in modo da evitare pulizie etniche e religiose. Conseguire tale obiettivo in un contesto dove molti combattenti religiosi ed etnici non riconoscono l’autorità del governo non risulta un’impresa facile.
Cacciabombardieri nei pressi della città di Mosul. Fonte: Reuters
Esiste poi un altro problema legato a Mosul: nella città continua a vivere un numero considerevole di civili. Fin dall’avvio delle operazioni sono state diramate notizie sulle morti di civili causate dai raid aerei della coalizione.
Vladimir Evseev rileva che è praticamente impossibile poter evitare delle perdite di civili durante i bombardamenti delle città. Washington ne è consapevole e cerca di scongiurare il rischio di situazioni come quella che si è venuta a creare intorno ad Aleppo, mentre l’Occidente incolpa la Russia e la Siria di effettuare incursioni aeree contro la popolazione civile.
“Già ora gli americani dichiarano di volere evitare che Mosul si trasformi in una seconda Aleppo e dichiarano la loro intenzione di non voler effettuare attacchi massicci dal cielo”, afferma Leonid Isaev. Al contempo, a detta dell’esperto, gli Stati Uniti, si trovano dinanzi a una scelta difficile: i bombardamenti seminano la morte tra la popolazione civile, ma se non vi fossero, le forze che combattono sul terreno - vale a dire gli alleati iracheni di Washington - subirebbero gravi perdite. Ciò complica sia la stessa conquista della stessa Mosul che il coordinamento tra le forze di terra dell’esercito, delle milizie e dei curdi.
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