L’8 settembre 1941, le truppe tedesche chiusero l’anello attorno a Leningrado. Da questo momento la città poteva comunicare con il resto del Paese soltanto attraverso la cosiddetta “Strada della vita”, che passava attraverso il lago Ladoga, la quale però era insufficiente per soddisfare i bisogni di una metropoli così grande ed era sotto il continuo bersaglio dei nazisti e dei loro alleati.
“Già nel primo inverno dell’assedio, Leningrado fu stretta in una morsa di terribile fame. Fu mangiato tutto quello che si poteva digerire: cinture di cuoio, suole di scarpe, nella città non c’era più un solo cane o gatto, per non parlare di piccioni e cornacchie”, ricordava il reduce dell’assedio Evgenij Aleshin. “Per avere l’acqua, le persone affamate ed indebolite si recavano sul fiume Neva, cadendo esauste per terra e morendo per strada. Si era ormai smesso di rimuovere i cadaveri, giacevano nelle strade e scomparivano sotto la neve. Morivano intere famiglie, o addirittura tutti coloro che stavano in una kommunalka…”.
Sin dai primi giorni dell’assedio, l’Armata Rossa più volte tentò di romperlo. Tuttavia, le operazioni intraprese tra il 1941 e 1942, fallirono: le forze dei sovietici, le risorse, e anche l’esperienza delle truppe, risultarono insufficienti.
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“Il 3-4 settembre, siamo avanzati in direzione di Kelkolovo, partendo da Chjonaja rechka”, ricordava P.A. Chepyshev, vice comandante del 939° reggimento che partecipò all’operazione di Sinjavino. “Senza il supporto dell’artiglieria. I proiettili che ci erano stati mandati non erano adatti per i nostri cannoni da 76 mm. Non avevamo neanche le bombe a mano. Non potevamo quindi sopprimere le mitragliatrici dei fortini tedeschi. La fanteria subiva delle perdite spaventose”.
Un nuovo tentativo fu intrapreso dopo la vittoria di Stalingrado. Questa volta le truppe sovietiche riuscirono a conseguire un successo parziale: nel corso dell’Operazione “Iskra” (Scintilla), lanciata in gennaio del 1943, fu creato uno stretto corridoio che rese possibile la comunicazione con Leningrado.
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Tuttavia, non si riuscì a sviluppare l’offensiva per respingere l’avversario. Le truppe restavano nei pressi di Leningrado e la loro artiglieria continuava a bersagliare regolarmente la città assediata.
Dopo il trionfo di Kursk, il comando dell’Armata Rossa decise che era giunta l’ora di rompere definitivamente l’assedio. Nell’autunno del 1943 iniziarono i preparativi per una massiccia offensiva nel nord-ovest del paese.
Si cominciarono a trasferire in massa gli equipaggiamenti verso Leningrado e verso la testa di ponte di Oranienbaum, la parte della costa del golfo di Finlandia ad ovest della città tenuta dalle truppe sovietiche, che però erano bloccate dai tedeschi.
Tale ammassamento delle truppe non poteva passare inosservato. Ivan Shilov, che all’epoca prestava servizio in un reparto contraereo, ricordava che i tedeschi stanziati nella zona di Pulkovo accesero gli altoparlanti per rivolgersi ai sovietici: “Russi, a cosa vi servono così tanti cannoni? Ci ritireremo comunque…”.
In realtà, il generale Georg von Küchler, comandante del gruppo di armate Nord, non pensava alla ritirata. Il suo gruppo di 740 mila uomini aveva creato un sistema di linee difensive che raggiungeva la profondità di 260 km, con fortificazioni anticarro in cemento armato, un’infinità di fortini con mitragliatrici, sbarramenti di filo spinato e campi minati.
“Le formazioni di questo gruppo avevano una grande esperienza”, scrisse il maresciallo sovietico Kirill Meretskov”, “soprattutto per quel che riguarda le operazioni offensive e difensive in aree costituite da foreste e paludi. Tuttavia, ormai non eravamo inferiori al nemico in termini di qualità delle truppe e avevamo la superiorità numerica: di 1,5 volte per gli effettivi, di 4 volte per gli aerei, di 3,5 volte per i carri armati”.
L’offensiva strategica di Leningrado-Novgorod delle truppe sovietiche iniziò il 14 gennaio 1944 con un attacco lanciato in direzione di Ropsha e Krasnoe Selo, partito dalla testa di ponte di Oranienbaum, delle forze della 2a armata che dovevano congiungersi con le truppe della 42a armata, stanziate nei pressi di Leningrado, che si misero in marcia il giorno dopo. Allo stesso tempo, le truppe del fronte di Volkhov avanzavano in direzione di Novgorod per bloccare le truppe naziste e impedire il trasporto verso nord dei rinforzi tedeschi.
Per l’Armata Rossa, i primi giorni dell’offensiva furono estremamente difficili. Jurij Nikulin, diventato in seguito famoso attore del cinema sovietico, ricordava: “A volte ci si fermava, perché procedere era impossibile. O c’era un ponte distrutto, o la macchina o carro armato che guidavano la colonna saltavano sulle mine disseminate tutt’attorno. Gli automezzi dilaniati e i cavalli morti si spingevano fuori dalla strada, gli uccisi e i feriti venivano caricati in silenzio su veicoli vuoti e con ciò si rimetteva in moto questa massa nera di ferro, acciaio, carburante e di cuori umani, ciascuno dei quali batteva soltanto una cosa: avanti, avanti, avanti”.
Quando entrarono in azione le riserve, la situazione migliorò. Il 20 gennaio, due armate sovietiche si unirono nei pressi di Ropsha, tagliando fuori le truppe tedesche che non avevano fatto in tempo a ritirarsi. Lo stesso giorno fu liberata Novgorod.
Dopo lo sfondamento di due segmenti del fronte, la difesa dei tedeschi cominciò a crollare. Il 21 gennaio, l’Armata Rossa occupò la stazione ferroviaria di Mga che aveva una grande importanza strategica, tanto che i tedeschi la chiamavano “fortezza orientale” dell’assedio.
Il 22 gennaio 1944, l’artiglieria tedesca, stanziata nella città di Pushkin, intraprese l’ultimo bombardamento di Leningrado. Due giorni dopo, la Wehrmacht dovette lasciare la città.
Entro la fine del mese le truppe sovietiche allontanarono i tedeschi da Leningrado di 70-100 km, liberando le strade che collegavano la città con il resto del Paese. Il 27 gennaio, il Consiglio militare del fronte di Leningrado annunciò ufficialmente la fine dell’assedio.
Per celebrare l’evento così lungamente atteso, a Leningrado furono sparate delle salve d’artiglieria, impiegando 324 cannoni. “Tutti coloro che in quel momento si trovavano nella città, esultavano: gioivano, si abbracciavano, si baciavano, gridavano ‘Urrà!’, piangevano di gioia, ma anche di dolore, perché le perdite erano state gravissime. Quante emozioni! Fu indimenticabile!”, ricordò Elizaveta Dobrova.
L’Armata Rossa continuò a spingere l’avversario verso ovest, spostando la linea del fronte di altri 120-160 km. Tuttavia, i sovietici non riuscirono ad accerchiare e distruggere definitivamente l’Heeresgruppe Nord, come il Cremlino aveva sperato.
I tedeschi si ritirarono in Estonia, dispiegando le truppe dietro la linea “Panther”, che faceva parte delle fortificazioni del Vallo Orientale, nella speranza di poter fermare l’offensiva sovietica che intanto stava diventando sempre più attiva.
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