L’incredibile storia del Saljut-7, la stazione orbitante che poteva cadere sulla Terra

Aleksandr Mokletsov/Sputnik; Sputnik
Nel 1985, i cosmonauti sovietici effettuarono nello Spazio la più difficile manovra della storia, salvando probabilmente migliaia di vite umane. Ecco come andarono i fatti, che hanno anche ispirato un bel film russo

Nel 1985, all’improvviso, fu perso il contatto con la stazione orbitante sovietica “Saljut-7”, che da sei mesi era disabitata e funzionava in modalità automatica.

Il “silenzio” della stazione fu percepito come una condanna a morte: senza la possibilità di correggere a distanza l’orbita dell’apparecchio, la “Saljut-7” era soltanto una massa di ferro di 19 tonnellate che si stava avvicinando alla Terra.

La stazione orbitale Saljut-7 con agganciata la navicella spaziale Sojuz T-14. Foto dei cosmonauti sovietici Vladimir Dzhanibekov e Georgij Grechko. L’immagine è stata scattata dalla navicella “Sojuz T-13” il 12 novembre 1986

Il Centro di controllo decise di mandare nello spazio una missione, per la quale furono scelti due cosmonauti esperti, Vladimir Dzhanibekov e Viktor Savinykh. L’equipaggio doveva “intercettare” al volo la stazione, agganciare la navicella a “Saljut-7”, poi entrare dentro la stazione e riattivarla.

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Usando una replica della “Saljut-7”, per quattro mesi i cosmonauti avevano simulato ogni situazione immaginabile, imparando a muoversi nel buio totale (l’impianto elettrico della stazione non funzionava più) e studiando i manuali.

L’equipaggio della navicella spaziale Sojuz T-13 Vladimir Dzhanibekov (a sinistra) e Viktor Savinykh (a destra) prima del lancio. 6 giugno 1985

Dopo il lancio, quando la navicella si era ormai avvicinata a “Saljut”, si capì che la stazione era rivolta verso la navicella con il suo boccaporto di attracco non funzionante. Le possibilità erano due: rinunciare alla missione o tentare di girare attorno alla stazione.

L’attracco manuale, se avesse fallito, avrebbe significato una tragedia. L’errore di un solo millimetro poteva danneggiare il modulo di aggancio o provocare uno scontro con la stazione, aprendole una breccia nella fiancata.

Dzhanibekov però riuscì nell’impresa, effettuando una manovra senza precedenti nella storia. Dopo essere entrati nella stazione, i cosmonauti scoprirono la causa di tutti i problemi: un sensore guasto che segnalava le batterie come pienamente cariche. A ogni segnalazione del sensore, il computer disattivava i pannelli solari, e in questo modo tutta l’energia si era esaurita.

I membri dell’equipaggio della navicella Sojuz T-13, il pilota-cosmonauta dell'Urss, due volte Eroe dell'Unione Sovietica, colonnello Vladimir Dzhanibekov (a destra) e il pilota-cosmonauta dell’Urss, Eroe dell’Unione Sovietica Viktor Savinykh prima del volo

Per riattivare i sistemi, i cosmonauti fecero girare la stazione in modo che la luce del sole illuminasse i pannelli solari. Gli strumenti cominciarono a dare segni di vita. Ventiquattro ore dopo, la stazione era pienamente funzionante.

Una volta rientrata in funzione, Dhzanibekov e Savinykh trascorsero a bordo della “Saljut-7” più di 100 giorni, ormai, però, in regime ordinario.

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