Perché gli ambasciatori stranieri in Russia venivano sempre fatti ubriacare pesantemente?

Kira Lisitskaya (Foto: Maria Giovanna Clementi; Georg Cristoph Grooth; Antoine Pesne)
Come si fa a sapere cosa ha in mente una potenza straniera, al di là delle belle parole della diplomazia? Bisogna sciogliere la lingua ai suoi messi con l’alcol. Per secoli, i principi e gli zar di Mosca imposero, per etichetta, di bere smodate quantità di vino, vodka e liquori ai ricevimenti ufficiali

“Quindi lo zar convocò anche me, e mi diede direttamente dalle sue mani un calice di vino”, scrisse Raffaello Barberini (1539-1582), un nobile fiorentino che nel 1564 portò a Ivan il Terribile una lettera della regina Elisabetta I d’Inghilterra. “Subito dopo averlo bevuto, la testa era pesantemente intontita, cosicché, dimenticando ogni decoro e pudore, ci precipitammo tutti, verso le porte… e finalmente raggiungemmo il portico del palazzo, dove, a venti passi o più, ci aspettavano i servi e i cavalli. Ma quando scendemmo per raggiungere i nostri cavalli e tornare a casa, dovemmo camminare nel fango, che era profondo fino alle ginocchia, e la notte era buia, non c’era luce da nessuna parte, così che patimmo parecchio, prima di riuscire a salire a cavallo”. (Sellerio editore ha pubblicato nel 1996 queste memorie, con il titolo “Relazione di Moscovia scritta da Raffaello Barberini”). 

Le avventure alcoliche descritte da Barberini non erano una rarità. “Molti stranieri, conoscendo le usanze dell’ospitalità russa, si sedevano a tavola con l’ansia che sarebbero stati costretti a bere molto”, ha scritto lo storico Vasilij Kljuchevskij (1841-1911). 

L’ubriachezza imposta dall’etichetta

Un banchetto nel Palazzo delle Faccette del Cremlino di Mosca, disegno del XVI secolo

All’inizio, nel XV e XVI secolo, i principi e gli zar di Mosca ricevevano personalmente ogni ambasciatore con un banchetto. Nel XVII secolo c’erano però ormai troppi ambasciatori stranieri e non tutti gli Stati avevano buoni rapporti con i russi: da allora i pasti in presenza dello zar, e persino solo una bevuta con il sovrano, divennero un privilegio riservato agli ospiti più onorevoli e rispettati delle ambasciate “amiche”. André Rohde, segretario dell’ambasciata danese in Russia sotto la guida di Hans Oldeland scrisse nel 1659 come si svolgevano quei ricevimenti.

“È stato portato da bere: vino, liquore di miele e vodka, in 7 boccali d’argento e dorati di varie dimensioni e in 5 grandi boccali di peltro; per quanto riguarda la birra, è stata portata su una slitta. Quando la tavola è stata imbandita, ci hanno messo sopra tutte assieme le pietanze, e, dopo averne date un po’ anche ai nostri servitori, hanno invitato l’ambasciatore alla cena. Secondo l’usanza russa, per prima cosa per risvegliare l’appetito ci hanno offerto da bere della vodka piuttosto forte da un bellissimo bicchiere ricoperto d’oro. Poi a tutti i presenti a tavola è stato versato un grande bicchiere di Rheinwein [vino del Reno], ma in previsione dei discorsi che di lì a poco si sarebbero dovuti tenere, nessuno osava toccarlo”, ha scritto Rohde.

Una “charka” russa, piccola coppa da circa 110 grammi di capacità

Un bicchiere nel XVII secolo conteneva più di 120 grammi di liquido, quindi non sorprende che dopo un tale inizio di pasto l’ambasciatore danese non avesse fretta di bere anche il Rheinwein. Ma cosa facevano i russi durante queste feste? Secondo i dignitari e la nobiltà russa di quei tempi, ubriacarsi a un banchetto reale, e in realtà a qualsiasi banchetto, era una cosa riguardosa; un modo per dimostrare rispetto per l’ospite. Come osservò un altro ospite di Mosca del XVII secolo, il diplomatico austriaco Augustin von Meyerberg, “si smette di bere solo al livello di ubriachezza estrema, e nessuno lascia la sala da pranzo sulle sue gambe, senza dover essere portato fuori”. Per inciso, Meyerberg non era un grande fan dei ricevimenti degli ambasciatori russi. In una visita fu ospite di Afanasij Ordin‑Nashchokin, il capo de facto della diplomazia russa. Meyerberg fu sollevato nel constatare che Ordin‑Nashchokin non era “uno sciocco imitatore delle usanze; ha gentilmente respinto quel modo di bere e la regola di doversi ubriacare”.

Tuttavia, quando si trattava direttamente con lo zar, non era possibile per i poveri ambasciatori stranieri poco avvezzi alla vodka russa, fare a meno di questo rituale alcolico: evidentemente i diplomatici russi si ponevano come obiettivo quello di far ubriacare i colleghi esteri fin quasi al coma etilico. 

Porzioni abbondanti

“Il rito del bacio”, dipinto di Konstantin Makovskij (1839-1915). Alla fine di un banchetto, le donne di casa dovevano salutare con un bacio tutti gli ospiti, anche se questi erano già molto ubriachi

La vodka (il “vino di pane”, “khlebnoe vinó”; come veniva chiamata a Mosca in quel periodo) era in generale la componente principale delle provvisioni per gli ambasciatori stranieri. Nei secoli XVI-XVII a Mosca era ancora una bevanda estremamente costosa, il cui monopolio di produzione era detenuto dallo Stato. 

Questo è il quantitativo di alcol che, ad esempio, fu assegnato a John Meyrick, l’ambasciatore inglese a Mosca sotto Mikhail Fjodorovich (Michele di Russia). Meyrick riceveva personalmente quattro coppe di vodka (circa mezzo litro), una coppa (1,1 litri) di vino d’uva, tre coppe di liquore di miele, una coppa e mezza di idromele e un secchio di birra al giorno. I nobili che accompagnavano l’ambasciatore ricevevano quattro coppe di vino di pane (ma di gradazione alcolica inferiore rispetto a quello dell’ambasciatore), una coppa di liquore di miele, tre quarti di secchio di idromele e mezzo secchio di birra. Anche i domestici comuni dell’ambasciatore ricevevano due vodke e mezzo secchio di birra. Le quantità erano certamente molto superiori a quelle che si possono bere in un giorno. Perché veniva fatto tutto questo? Naturalmente per mostrare la ricchezza e la generosità dello zar russo e anche, se possibile, per sciogliere le lingue e scoprire cosa dicevano gli ambasciatori e il loro entourage durante questi banchetti.

Sigismund von Herberstein (1486-1566), diplomatico e scrittore austriaco. Fu ambasciatore in Russia e pubblicò nel 1549 il “Rerum Moscoviticarum commentarii” corredato di mappe

La festa per gli ambasciatori importanti non si esauriva infatti nel palazzo dello zar. Dalla fine del XV secolo c’era l’usanza di “dare da bere all’ambasciatore direttamente nel cortile della sua ambasciata; nel palazzo messo a disposizione dai moscoviti per ospitare il diplomatico straniero e il suo seguito”. Come ciò avvenisse è descritto in dettaglio da Sigismund von Herberstein, che visitò Mosca nel XVI secolo. 

“Dopo che gli ambasciatori vengono congedati, quelli che li hanno accompagnati a palazzo li riportano alla locanda dove soggiornano, dicendo che sono stati incaricati di stare lì per rallegrarli. Portano ciotole, coppe e recipienti d’argento, ognuno con una bevanda particolare, e tutti fanno del loro meglio per far ubriacare gli ambasciatori. E sanno perfettamente come far bere la gente. Quando nessuno ha più motivo di alzare la coppa, cominciano a bere alla salute dello zar, del sovrano estero, e infine per il benessere di tutti coloro che, secondo loro, hanno una qualche dignità o onore. Si aspettano che nessuno possa rifiutare una coppa in onore di queste personalità. Bevono in questo modo: colui che inizia prende la coppa e va al centro della stanza. Stando in piedi a capo scoperto, dice alla salute di chi sta bevendo e cosa gli augura. Poi, dopo aver scolato e capovolto la coppa, ne tocca la sommità, in modo che tutti vedano che ha bevuto, e augura salute al signore per il quale beve. Poi si reca nel luogo più alto e chiede che vengano riempite diverse coppe, dopodiché porge a ciascuno la sua e pronuncia il nome di colui alla cui salute si deve bere. Tutti devono andare uno alla volta dal loro posto verso il centro della stanza e, dopo aver svuotato la coppa, tornare a sedersi. Chi vuole evitare di bere più a lungo deve necessariamente fingere di essere totalmente ubriaco o addormentato, o almeno assicurare in modo convincente di non poter più bere, perché qui si ritiene che ricevere bene gli ospiti e trattarli decentemente significhi farli terribilmente ubriacare”. 

Una “chasha” russa, grossa coppa di circa 1,1 litri di capacità

Sia nel palazzo dello zar che nelle feste “in trasferta” presso le corti degli ambasciatori, i russi che avevano il compito di far ubriacare gli ambasciatori, portavano con sé una lunga lista di nomi delle persone a cui si doveva brindare, in modo che i motivi per bere non finissero troppo presto. Come scrive Kljuchevskij, “gli incaricati spesso raggiungevano il loro obiettivo: far ubriacare l’ambasciatore, e non sono mancate le storie tristi. Ma allo stesso tempo venivano raggiunti anche altri importanti obiettivi: l’ambasciatore alticcio spesso non riusciva nemmeno a nominare ciò che gli era stato ordinato di tenere a mente e per cui era venuto a parlare”.   

E cosa succedeva se l’ambasciatore semplicemente non poteva bere così tanto? In questi casi, lo zar di Mosca concedeva gentilmente al suo ospite straniero di “non finire la coppa”, come accadde ad Ambrogio Contarini sotto il granduca Ivan III: il veneziano riuscì a malapena a bere un quarto della coppa datagli dallo zar, ma Ivan in persona concesse all’ambasciatore il permesso di non svuotarla.

L’ira di Pietro il Grande contro chi non beveva

Pietro il Grande (1672-1725), mentre brinda dopo aver decapitato una guardia degli Streltsy

Ma il più grande appassionato nel far ubriacare gli ambasciatori e gli ospiti stranieri era, ovviamente, Pietro il Grande. Gli ospiti europei non hanno mai bevuto come ai suoi tempi, né prima né dopo. Friedrich Wilhelm von Bergholz, un nobile dell’Holstein che conobbe personalmente Pietro il Grande nel 1721 e fu ripetutamente costretto a ubriacarsi in sua compagnia, ne ha lasciato la più grande testimonianza. “Avevo una paura tremenda di sbronzarmi”, confessò. Anche il suo sovrano, Carlo Federico di Holstein-Gottorp (che poi avrebbe sposato la figlia di Pietro il Grande), aveva capito l’andazzo: “Sua Altezza mi sussurrò di versare dell’acqua nella bottiglia di vimini del Borgogna per alleggerire un po’ il vino”: così il duca consigliò al suo suddito di affrontare meglio la situazione.  

Ma Carlo Federico non si salvò con questi trucchetti: lo zar Pietro vigilava attentamente per assicurarsi che i suoi ospiti bevessero “correttamente” alla sua salute. Quando il duca di Holstein cercò di bere del vino diluito durante la festa, Pietro “prese il bicchiere da sua altezza e, dopo averlo assaggiato, lo restituì con le parole: ’Il vostro vino non è buono’”. Quando il duca cercò di obiettare che non stava bene e non poteva bere così tanto, lo zar disse che l’alcol diluito era ancora più dannoso di quello puro, “e gli versò nel bicchiere dalla sua bottiglia del vino ungherese forte e amaro, che di solito tirava giù a bicchieri interi”. Quando Pietro si accorgeva che qualcuno non beveva abbastanza, si infuriava. Come ricorda Bergholz, “lo zar scoprì che al tavolo di sinistra, dove sedevano i ministri, non tutti i brindisi venivano fatti con vino puro, o almeno non con i vini che lui richiedeva. Sua Maestà si arrabbiò molto e ordinò a tutte le persone a tavola di bere davanti ai suoi occhi un enorme bicchiere di vino ungherese, come punizione. Visto che stranamente ordinò di versarlo da due bottiglie diverse e che tutti quelli che lo bevvero furono immediatamente pesantemente ebbri, penso che abbia fatto mescolare della vodka al vino”.

Carlo Federico di Holstein-Gottorp (1700-1739). Sposò la granduchessa Anna Petrovna Romanova, figlia maggiore dello zar Pietro il Grande

Insomma, Pietro non badava a spese quando si trattava di bere. E, visto il tasso alcolico, liti e scandali erano frequenti durante le feste dello zar. Bergholz scrisse che “l’ammiraglio [Apraksin] era così ubriaco che piangeva come un bambino, come è solito fare in queste occasioni”. E che “il principe Menshikov si è ubriacato a tal punto da perdere i sensi, e i suoi uomini sono stati costretti a chiamare la principessa e sua sorella, che con l’aiuto di varie sostanze lo hanno fatto riprendere conoscenza, chiedendo poi al sovrano il permesso di riportarlo a casa. In breve, c’erano pochissime persone che non erano completamente ubriache…”. 

È noto che  queste bevute imposte da Pietro portarono talvolta a conseguenze disastrose: ad esempio, il duca di Curlandia e Semigallia Federico Guglielmo Kettler, che Pietro diede in sposa alla nipote Anna Ioannovna, non sopravvisse a una festa alcolica con il sovrano russo: due giorni dopo i festeggiamenti nuziali lo sposo morì durante il viaggio da San Pietroburgo, e i contemporanei attribuirono l’incidente al fatto che il giovane duca decise incautamente di competere con Pietro nell’arte del bere. Pietro il Grande, tuttavia, fu l’ultimo dei monarchi russi disposto a bere così apertamente con i suoi ospiti e i suoi sudditi. Sotto i successivi Romanov, la formidabile tradizione russa della diplomazia alcolica si estinse. 


LEGGI ANCHE: Perché i russi bevono tanto? 

Cari lettori, 

a causa delle attuali circostanze, c’è il rischio che il nostro sito internet e i nostri account sui social network vengano limitati o bloccati. Perciò, se volete continuare a seguirci, vi invitiamo a: 

  • Iscrivervi al nostro canale Telegram
  • Iscrivervi alla nostra newsletter settimanale inserendo la vostra mail qui
  • Andare sul nostro sito internet e attivare le notifiche push quando il sistema lo richiede
  • Attivare un servizio VPN sul computer e/o telefonino per aver accesso al nostro sito se risultasse bloccato nel vostro Paese

Per utilizzare i materiali di Russia Beyond è obbligatorio indicare il link al pezzo originale

Questo sito utilizza cookie. Clicca qui per saperne di più

Accetta cookie