Nella buona società di San Pietroburgo, Feliks Jusupov (1887-1967) era celebre per essere una persona estremamente stravagante, incline a buffonate spericolate e ad avventure. E si sa, la gente di cinema ama realizzare film su questo tipo di persone, specie se hanno anche partecipato a eventi storici importanti, cruenti e ricchi di mistero. La Metro-Goldwyn-Mayer produsse nel 1932 un film in cui il personaggio di Jusupov (seppur ribattezzato “Prince Chegodieff”) aveva un ruolo importante. La pellicola ebbe un grande successo di critica, tanto che fu nominato all’Oscar al miglior soggetto (premio assegnato solo dal 1929 al 1956). Tuttavia, a Jusupov e a sua moglie non piacque, e questa coppia di emigranti russi divenne un vero incubo per Hollywood.
Erede di una grande fortuna e bullo
Gli Jusupov erano una delle famiglie più ricche dell’Impero russo, proprietari di tenute, palazzi, terre e fabbriche, vaste collezioni di gioielli di famiglia. Per quattro secoli, tra gli Jusupov ci sono stati comandanti militari, consiglieri segreti, governatori, ministri e mecenati delle arti. Insomma, la famiglia aveva una reputazione storica eccezionale. Ma il giovane Feliks iniziò a intaccarla all’inizio del XX secolo.
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Dopo la morte del fratello maggiore Nikolaj, ucciso in un duello, Feliks rimase l’unico erede di tutta questa enorme fortuna, e allo stesso tempo non smise di essere la principale fonte di scandali e pettegolezzi. “Un disonore della famiglia”, era quello che i suoi parenti pensavano di lui.
All’età di 17 anni, ad esempio, si travestì, e dopo aver indossato un abito da donna, ed essersi truccato di tutto punto, si esibì in un cabaret chic di Pietroburgo, solo per divertimento. Dopo la settima performance del genere, venne riconosciuto da conoscenti tra il pubblico per via dei diamanti di famiglia. Nel 1909 andò a studiare a Oxford e, nel corso dei tre anni in Inghilterra, fu conosciuto come adoratore del diavolo, introdusse la moda per i tappeti neri, divenne quasi il principale sospettato nel rapimento del principe greco Cristoforo, cercò di rubare una mucca a una donna anziana smemorata nella notte (l’aveva già onestamente comprata il giorno prima), fu ferito da un colpo di pistola, e dette grandi chiassose feste, a cui la società inglese non era abituata.
Ritornato in Russia, Feliks iniziò a rendersi conto di tutte le responsabilità che aveva in quanto unico erede di una famiglia così importante. Cominciò a pensare alla politica. All’età di 29 anni, questo lo portò a ideare una cospirazione per uccidere il consigliere spirituale della famiglia imperiale, Grigorij Rasputin. Nel 1916, come è noto, il piano fu attuato con successo. Feliks sparò personalmente al mistico al petto, dopo un tentativo fallito di avvelenamento con cianuro di potassio. “Ero convinto che tutto il male e la causa principale di tutte le disgrazie della Russia fossero nascosti in lui. E che, senza Rasputin, sarebbe scomparsa quella forza satanica, nelle cui mani erano caduti l’imperatore e l’imperatrice”, ha ricordato Jusupov nelle sue memorie.
Il suo ottimismo si rivelò infondato. Nonostante la morte di Rasputin, la dinastia dei Romanov non si salvò e presto finì vittima della Rivoluzione. Jusupov fuggì prima in Inghilterra e poi in Francia.
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Un caso fortunato
Jusupov riuscì a farla franca. Due anni prima aveva sposato una principessa di sangue imperiale, la nipote di Nicola II, Irina Romanova. E non importa quindi quanto fosse infuriata la famiglia imperiale per l’omicidio di Rasputin: non era possibile punire gravemente uno di loro. Inoltre, troppi sostenevano Jusupov, credendo che avesse agito nell’interesse della Russia.
Feliks e Irina lasciarono la Russia, portando con sé i gioielli di famiglia e solo due dipinti di Rembrandt della grande collezione familiare, il che, tuttavia, permise loro di mantenere il loro solito stile di vita lussuoso e anche di sostenere finanziariamente gli emigranti: a Londra fecero un sacco di beneficenza.
Le cose peggiorarono all’inizio degli anni Trenta, in Francia. Gli emigranti russi raccoglievano sempre meno simpatie in giro per il mondo, e i soldi cominciavano a calare. I gioielli dovettero essere impegnati e i Rembrandt furono venduti al collezionista americano Joseph E. Widener. Gli Jusupov erano già riusciti a questo punto ad aprire la casa di moda IRFE, a lanciare una linea di profumi, a cimentarsi nella ristorazione, ma erano già molto lontani dal loro passato benessere finanziario: c’erano persino giorni in cui Feliks Jusupov non poteva pagare una cena sontuosa di quelle che amava fare, e usciva dall’impasse mostrando il passaporto: al portatore di un cognome tanto nobile veniva offerto tutto volentieri.
Poi la fortuna sorrise gli sorrise di nuovo: la Metro-Goldwyn-Mayer nel 1932 fece uscire il film “Rasputin e l’imperatrice” (titolo originale “Rasputin and the Empress”), con i tre fratelli Barrymore nei ruoli principali: John in quello del “principe Paul Chegodieff”, Ethel in quello della “zarina Alessandra Feodorovna” e Lionel in quello di Rasputin. Diana Wynyard era la “principessa Natasha”. Gli Jusupov si riconobbero, ritennero il film offensivo e intentarono una causa contro lo studio hollywoodiano in un tribunale di Londra.
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Un pericoloso precedente
La causa fu intentata per diffusione di informazioni non corrispondenti alla realtà, ritenute infamanti e diffamatorie. Il film mostrava la storia dell’ascesa e della morte di Rasputin, così come il suo rapporto con la famiglia imperiale russa. Rasputin nella finzione scenica viene ucciso da un certo Pavel (Paul) Chegodaev, in cui era facile riconoscere il principe Jusupov. Tuttavia, non fu questo a oltraggiarlo. Feliks non nascondeva di aver commesso il crimine, anzi lo rivendicava, e aveva persino scritto un libro su quei fatti, “La fine di Rasputin”.
Ma nel film, la sposa del principe, Natasha, viene violentata da Rasputin e diviene persino la sua amante! Jusupov riteneva che l’onore di sua moglie Irina fosse stato offeso: i paralleli con lei erano ovvi. A proposito, inizialmente nella sceneggiatura, i personaggi avevano i loro nomi veri, ma durante le riprese vennero sostituiti da quelli di fantasia. E per inserire il particolare dello stupro la produzione fece grandi pressioni, tanto da licenziare la prima sceneggiatrice, che era contraria.
Dopo aver appreso della causa, la Metro-Goldwyn-Mayer si scusò e dichiarò pubblicamente che la principessa Natasha era un personaggio immaginario e non aveva nulla a che fare con la principessa Irina Jusupova. Ma la giuria si schierò con gli Jusupov e ritenne colpevole lo studio, ordinandogli di pagare 25.000 sterline.
Ma il grosso, la casa di produzione dovette pagarlo a seguito di un accordo extragiudiziale per il permesso di far tornare nelle sale cinematografiche il film, anche se tagliato di circa 10 minuti, con l’eliminazione di tutte le scene offensive per la principessa, tra cui la scena dello stupro. L’importo totale del risarcimento, al valore di oggi della valuta, equivarrebbe a vari milioni di dollari Usa. Fu un bel gruzzoletto per gli Jusupov, che poterono riprendere a fare la bella vita!
E fu dopo questo processo che la Metro-Goldwyn-Mayer, e presto anche tutte le altre case di produzione cinematografica e le case editrici, iniziarono a inserire il cosiddetto “All persons fictitious disclaimer”: “This is a work of fiction and any resemblance to persons living or dead is purely coincidental” (“Questa è un’opera di finzione e ogni riferimento a persone vive o morte è puramente casuale”).
Anni dopo, nel 1966, poco prima della sua morte (il principe è scomparso a Parigi il 27 settembre 1967, ed è sepolto, come molti russi illustri, a Sainte-Geneviève-des-Bois), Jusupov provò a rigiocare questa carta, intentando una causa per 1,5 milioni di dollari, sempre per diffamazione, contro la rete televisiva americana CBS, che aveva messo in onda “Rasputin: il monaco folle” (titolo originale: “Rasputin, the Mad Monk”), diretto da Don Sharp e con Christopher Lee nei panni di Rasputin. Ma stavolta non andò come sperava: il principe perse la battaglia in tribunale.
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