Due terribili incidenti sulle montagne russe che hanno lasciato una scia di mistero e terrore

Storia
OLEG EGOROV
Non c’è solo la spaventosa tragedia del gruppo di Igor Djatlov, scomparso sessant’anni fa sugli Urali. Anche in un altro paio di casi, escursionisti e alpinisti hanno fatto una fine orribile e non è mai stato chiarito il perché

Le ipotesi sul perché sessant’anni fa sui Monti Urali morirono misteriosamente e tragicamente tutti i componenti della spedizione guidata da Igor Djatlov non smetteranno probabilmente mai di fiorire. La fuga nel cuore della notte, dopo aver tagliato dall’interno la tenda, degli escursionisti seminudi e scalzi, i terribili traumi (una ragazza era addirittura senza la lingua) e l’alta dose di radiazioni sui loro cadaveri ha fatto ipotizzare di tutto, dalla psicosi di massa, agli intrighi dei servizi segreti sovietici o delle spie americane, fino allo sbarco degli extraterrestri. Russia Beyond (leggete per esempio qui e qui) ha scritto di questo mistero.

Ma la storia di questa tragedia non è l’unico caso in cui dei turisti o degli scalatori professionisti sono morti in circostanze molto particolari. Sono vicende non così note come quella del gruppo di Djatlov, ma hanno comunque lasciato un sacco di questioni irrisolte.

La morte del gruppo di Korovina  

Dove: Monti Khamar-Daban, Buriazia (vetta più alta: 2.396 metri)

Quando: agosto 1993

Morire di ipotermia in pieno agosto è un triste destino. Eppure è quello che è successo a questo gruppo di giovani turisti provenienti dal Kazakistan, guidati dall’esperta guida alpina Ljudimila Korovina. Dopo essere giunto in Buriazia, il gruppo si spostò verso i Monti Khamar-Daban. Con il meteo non ebbero fortuna: cadeva una fitta pioggia gelata mischiata a nevischio. Ma ciononostante gli escursionisti avanzarono abbastanza normalmente fino al 5 agosto.

A quella giornata non sopravvissero sei dei sette componenti del gruppo. L’unica a restare in vita, la diciassettenne Valentina Utochenko, più tardi scrisse che, mentre stavano scendendo di quota in un punto difficile, quasi alla cieca per le condizioni meteorologiche, uno di loro iniziò a sentirsi male: schiumava dalla bocca e perdeva sangue dalle orecchie. Poco dopo anche tutti gli altri furono vittime degli stessi sintomi. In breve tempo, tutti e sei morirono quasi in contemporanea, dopo essersi rotolati a terra, strappati di dosso i vestiti e stringendosi la gola. La ragazza rimase sola. 

Quasi priva di sensi, scese dalla montagna, e orientandosi con dei tralicci dell’elettricità, arrivò fino al fiume, dove la avvistarono e portarono in salvo dei turisti su dei catamarani.

L’autopsia rivelò che la causa della morte dei sei membri del gruppo era l’ipotermia: tutti avevano un edema polmonare e disproteinemia (un sintomo di malnutrizione). Ma i fatti noti non spiegano tutto. 

Perché l’esperta Korovina inizialmente guidò il gruppo lungo le alte vette brulle delle montagne, quando i turisti potevano scendere negli speroni boscosi, dove era più facile accendere un fuoco e riscaldarsi? Cosa causò i terribili sintomi di sanguinamento? Come si originò la disproteinemia, se, secondo la sopravvissuta, tutti i giorni si erano nutriti normalmente? Come hanno fatto sei sani e robusti escursionisti a morire in pochi minuti? Perché il settimo membro del gruppo è sopravvissuto? Dopo anni, la stessa Utochenko ascrive la propria sopravvivenza al buon allenamento fisico e preferisce non ricordare il terribile evento sulla montagna. 

La morte del gruppo di Shataeva 

Dove: Picco Lenin (oggi Picco Ibn Sina), confine fra Tagikistan e Kirgizistan (vetta: 7.134 metri) 

Quando: agosto 1974 

A differenza dei morti in Buriazia, il gruppo guidato da Elvira Shataeva era composto da alpinisti professionisti, e la montagna che si erano prefissi di scalare era significativamente più alta. La Shataeva era una tra le prime e più famose alpiniste donna dell’Unione Sovietica. Si era data un obiettivo ambizioso: conquistare questo settemila con un gruppo composto solo di alpiniste donne. A quel momento una cosa senza precedenti. 

Shataeva e le altre sette salirono sul Picco Lenin il 5 agosto e comunicarono l’avvenuta scalata al campo base ai piedi della montagna. Dal campo si congratularono con loro per il successo, ma era troppo presto per gioire. 

La sera del 5 agosto, durante la discesa, il meteo peggiorò sensibilmente e il gruppo della Shataeva decise di accamparsi per la notte lungo il pendio. Il giorno successivo il vento si fece così forte che scendere era estremamente pericoloso, ma la Shataeva comunicò: “Una delle componenti del gruppo si sente male, già da un giorno intero vomita dopo ogni tentativo di mangiare qualcosa”. Dal campo base, temendo complicazioni, consigliarono di discendere quanto prima. 

Il 7 agosto, mentre scendevano, lungo quel versante montuoso si formò un uragano, evento meteorologico che probabilmente in montagna è il più terribile possibile. L’uragano spazzò via le masserizie e un’intera tenda con due alpiniste, che, a quanto comunicò la Shataeva, trovarono così la morte. Una terza, probabilmente quella che già si sentiva male, era morta prima che iniziasse il forte vento. Quelle rimaste vive, senza vestiti caldi e attrezzatura si trovarono in trappola. Altri gruppi di alpinisti cercarono di raggiungerle per prestare aiuto, ma, a causa del vento che continuava a imperversare, non riuscirono ad arrivare in tempo. 

L’ultima comunicazione, data già non dalla Shataeva ma da un’altra alpinista fu drammatica: “Siamo rimaste solo in due. Siamo stremate. Tra quindici, massimo venti minuti anche noi moriremo”. E in effetti nessuna di loro sopravvisse.

Misteri in questa tragedia non sembrano essercene troppi, a un primo sguardo, ma il giornalista e scalatore Anatolij Ferapontov, in un suo libro pone l’attenzione su alcune incongruenze rilevabili nell’accampamento, dove furono ritrovati i corpi: “Una delle fotografie panoramiche mostra chiaramente una pietra con sopra un fornello in piedi. Un uragano l’avrebbe buttato giù dalla pietra! E poi le tende sono incredibilmente lacerate. Non c’erano là venti tali da strappare in quel modo una tenda ben chiusa. Solo una persona in preda a un attacco isterico può ridurla così”. 

Non è chiaro quale malattia abbia colpito il campo e se la prima vittima sia effettivamente morta a causa di essa. Ferapontov cita uno degli scalatori dei gruppi vicini che si trovavano sulla montagna in quel momento: “Nulla fu come è stato detto”. Tuttavia, non è stato possibile trovare nient’altro che queste parole, e ora è ormai improbabile che si chiarisca quanto successo lassù.

 

Le foto di sette grandi montagne russe (oltre allElbrus) da scalare