Alexander Shmonov
Ruslan Shamukov/RBTHAleksandr Shmonov. Fonte: Ruslan Shamukov/RBTH
Aleksandr Shmonov è un padrone di casa molto ospitale. Fin sulla soglia ci offre del tè con una fetta di torta, ci permette di entrare senza spogliarci, dicendo di accomodarsi pure dove preferiamo. In realtà non si sa dove sedersi: il suo piccolo monolocale è invaso da scatole piene di cianfrusaglie, disseminate in parte anche sull’unico letto. Non si riesce a capire dove Aleksandr possa dormire e consumare i suoi pasti dato che anche in cucina non si riesce a muoversi.
Alla fine conversiamo in piedi. “Ho appena traslocato” dice Shmonov, spiegandoci la ragione di tutto quel caos. Dopo di che comincia a illustrarci i suoi piani per il futuro, davvero insoliti per un pensionato di 64 anni. “Ho venduto la mia casa un mese fa e ho acquistato in contanti un appartamento in un palazzo di nuova costruzione, ma i lavori non sono ancora finiti, e così vivo qui provvisoriamente in questo monolocale in affitto. Quando finiranno di costruire il palazzo venderò anche quell’appartamento per una cifra molto più alta di quella che l’ho pagato. Una parte del denaro la terrò per me e l’altra la darò a due programmatori che realizzeranno la mia invenzione”.
L’invenzione a cui Shmonov sta lavorando da parecchio, che definisce senza modestia “rivoluzionaria” e per cui sta cercando senza successo di ottenere il brevetto, viene descritta ufficialmente così: “Una serie di metodi grazie ai quali tre programmatori riusciranno facilmente a mettere a punto dei programmi informatici mediante i quali il computer potrà realizzare numerose invenzioni senza l’aiuto dell’uomo”.
L’ultimo terrorista dell’Urss possiede almeno una ventina di invenzioni simili che desidera farci conoscere. “Un metodo per innalzare di due, tre volte il livello medio delle condizioni di vita di chi in Russia non si occupa di business”. “Un metodo per ridurre drasticamente il numero e i rischi di truffe ai danni dei consumatori”. “Un metodo per migliorare i cittadini del Paese e per creare dei cloni a tale scopo”. E persino “un metodo per migliorare le prestazioni sessuali maschili senza l’impiego di farmaci” la cui prescrizione fondamentale è sintetizzata nella seguente frase: “Per migliorare la qualità delle proprie prestazioni sessuali l’uomo deve sempre tenere (giorno e notte) le gambe aperte”.
Tutto sta a testimoniare che a differenza di quanto è accaduto a Viktor Ilin, l’attentatore di Leonid Brezhnev (condannato a cure psichiatriche forzate anziché alla fucilazione), nel caso di Shmonov il prezzo pagato per le terapie è alto.
La raffigurazione del fallito attentato. Fonte: Rbth
Gemelli estranei
La loro storia presenta delle sorprendenti analogie. Come Ilin, anche Shmonov è nato a Leningrado (oggi San Pietroburgo), ha studiato all’Istituto di Ingegneria edile e architettura e ha lavorato come ingegnere in uno stabilimento. È stato per molti anni un cittadino sovietico esemplare finché qualcosa “è saltato”. “Nel 1975, dopo che Brezhnev aveva siglato gli Accordi di Helsinki, per un breve periodo nel territorio dell’Urss le stazioni radio della Bbc e di Voice of America si potevano ascoltare senza che fossero disturbate. Così per la prima volta ho potuto conoscere la verità su quanto avveniva in Unione Sovietica e sulle persecuzioni dei dissidenti e ho compreso tutta la mostruosità del nostro regime totalitario”, racconta Shmonov.
Come Ilin, anche Shmonov, inviò una lettera ultimatum al Cremlino in cui chiedeva le elezioni dirette del Presidente e del parlamento. E proprio come lui, non avendo ricevuto nessuna risposta, decise di uccidere il leader dell’Urss, raggiungendo Mosca per eseguire il suo piano nel giorno del 73esimo anniversario della rivoluzione socialista, durante la parata sulla Piazza Rossa che prevedeva il saluto di Gorbachev dalla tribuna del Mausoleo. “Avevo detto a mia moglie che sarei andato alla dacha ad occuparmi dell’orto e invece sono salito su un treno che mi ha portato fino alla capitale”.
Chiediamo ad Aleksandr se non ha mai conosciuto Ilin. San Pietroburgo è forse l’unica città del mondo in cui vivono a piede libero due ex terroristi che hanno attentato alla vita di capi dello Stato. “No, non ci siamo mai incontrati, ma naturalmente conosco la sua storia”, risponde Shmonov, sottolineando la principale differenza che lo distingue dall’attentatore di Brezhnev: “Io non ho agito da solo, avevo un complice”, dice.
Il tradimento dell’amico
Shmonov conobbe il suo complice all’interno del Fronte popolare di Leningrado. All’inizio degli anni Novanta, in seguito al brusco peggioramento delle condizioni di vita dei russi e alla possibilità da parte dei media di poter raccontare la verità sul Paese, in Unione Sovietica cominciò a formarsi un forte movimento di protesta. A Mosca e a Leningrado si tenevano meeting antisovietici a cui partecipavano centinaia di migliaia di persone.
“Il Fronte popolare di Leningrado” era un’organizzazione indipendente, non ufficiale che rivendicava la democratizzazione del sistema statale e che contava circa duemila membri. Shmonov vi aveva aderito nel 1989 e la primavera dell’anno successivo, a una riunione, fu avvicinato da un altro membro che scherzando gli disse che in caso di rivoluzione lui disponeva di una pistola. “Allora mi venne l’idea di avere un complice - confessa Aleksandr -. In fondo avrei avuto delle difficoltà a eseguire il piano da solo”.
Non fu difficile persuaderlo. “Ci accordammo così: avremmo seguito tutti due la colonna dei manifestanti e all’altezza del Mausoleo io avrei estratto l’arma (tre settimane prima Aleksandr aveva comprato un fucile da caccia a due canne, ndr) e l’avrei puntata contro Gorbachev. Contemporaneamente il mio complice, per impedire che mi disturbassero mentre prendevo la mira, avrebbe puntato la sua pistola minacciando di sparare a chiunque si avvicinasse. Ma quando si arrivò al momento fatidico, lui si spaventò. E all’ultimo istante proseguì come se niente fosse con la colonna dei manifestanti. Estrassi il fucile e fui immediatamente bloccato. Dopo averlo estratto dalla custodia stavo per colpire il bersaglio, ma un sergente si precipitò verso di me e mi strappò il fucile. Grazie a questa mossa i proiettili sfiorarono Gorbachev. E poi venni assalito dalla folla…”.
Chiediamo a Shmonov perché abbia scelto di colpire un obiettivo così anomalo: perché proprio Gorbachev, che era stato l’iniziatore della perestrojka, aveva aperto i confini e posto fine alla censura nei media? Ma Aleksandr è inflessibile: “Lui è direttamente responsabile delle morti avvenute a Baku e Tbilisi. Il cammino verso la libertà, che aveva preannunciato, non è stato attuato. Negli anni Novanta sono stato arrestato tre volte solo per aver distribuito dei volantini in cui chiedevamo di non votare per i membri del Comitato Centrale del Pcus”.
Tre mesi senza dormire
Dopo il fallito attentato, Shmonov fu condotto alla prigione di Lefortovo. “Mi tennero rinchiuso là per un mese - ricorda -, e poi mi diedero l’infermità mentale e mi trasferirono in un ospedale psichiatrico, anche se ero nel pieno possesso delle mie facoltà. Non volevano trasformarmi in un eroe del popolo e così dichiararono che ero pazzo. E questo benché comprando il fucile avessi superato tutti i test e ottenuto il certificato di sanità mentale".
Dell’esperienza terribile vissuta nell’ospedale psichiatrico N° 6 Shmonov parla con una tranquillità disarmante. “Le condizioni di vita erano quelle di un lager. Non si riusciva a respirare, l’edificio non veniva arieggiato da anni e non ci facevano mai uscire fuori. Anche se per legge sarebbe stato un nostro diritto. Ho fatto un esposto alla procura per denunciate le condizioni in cui ci tenevano. Quando il primario l’ha scoperto è venuto da me:'Ora dovrai tener duro, sospendiamo le pastiglie e passiamo alle iniezioni pesanti', mi ha detto. Ha mai sentito parlare del Moditen depot? Dopo che ti hanno fatto l’iniezione non riesci più a stare in piedi, né seduto o sdraiato e tremi in tutto il corpo. Questi effetti collaterali dell’iniezione durano per un mese. Dopo tre mesi ho detto a mia madre: ‘Ti prego, cerca di convincere il medico, dagli una bustarella, ma tirami fuori di qui’. Non ho dormito per tutto il tempo. Alla fine non so come lei sia riuscita a convincere il medico a sospendere le iniezioni. Da allora non mi sono più lamentato delle mie condizioni”.
Una vita quasi da sonnambulo
Shomov dice che per riprendersi dalla “cura” gli ci sono voluti cinque anni. Ma il primo problema era come lasciare l’ospedale. “Non so come sia riuscito a salvarmi - racconta -. Mio padre era un funzionario di polizia, un colonnello. Si è dato da fare, ha mandato lettere a varie istanze. E poi quando Eltsin è diventato Presidente gli ho scritto: ‘Egregio Boris Nikolaevich, nel ´Novanta ho raccolto duecento firme per sostenerLa, La prego di intervenire per alleviare la mia sorte’. E all’ultima visita psichiatrica di controllo (i controlli venivano effettuati ogni sei mesi e alla fine la mia diagnosi era sempre di ‘delirio’ o ‘sindrome confusionale acuta’) ho deciso di fingere e di ammettere i miei errori: ho detto che non avrei mai dovuto sparare a Gorbachev e che mi sentivo pentito. E alla fine la commissione ha riconosciuto che la malattia era in fase di regressione e sono stato dimesso”. “Ma lei non riconosce di aver commesso degli errori?”, gli chiediamo incuriositi. “No, il mio giudizio su Gorbachev resta immutato”.
Tuttavia, Mikhail Sergeevich, che il 2 marzo festeggerà il suo 82esimo compleanno, non ha niente da temere: l’uomo, che una volta aveva desiderato la sua morte, ora è completamente immerso in un’altra nuova invenzione.
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