Tutto quello che c’è da sapere sulle bande giovanili in Urss

Kira Lisitskaya (Foto: Valerij Bushukhin, Robert Netelev/TASS; Zhora Kryzhovnikov/Toomuch Production, 2023)
Il fenomeno fu particolarmente grave a Kazan, dove i gruppi di adolescenti organizzati ed estremamente violenti arrivarono di fatto a controllare tutto il territorio cittadino, negli anni Settanta e Ottanta, tra racket, omicidi e regolamenti di conti. Ecco perché la polizia sovietica non riusciva a riprendere il controllo della situazione, e come queste gang erano organizzate al loro interno

“Due miei conoscenti, ragazzi dell’Istituto professionale fluviale di Kazan, adolescenti, chiacchierano tra loro: ‘Abbiamo già diciotto anni e non abbiamo ancora ammazzato nessuno…’. Questa frase mi gela ancora il sangue”, racconta Radif Zamaliev, maestro di sport nel combattimento corpo a corpo residente a Kazan, che in gioventù ha assistito al periodo di massimo sviluppo del “fenomeno Kazan”: il dilagare di bande giovanili di strada che controllavano i quartieri, le vie e i cortili della città con estrema violenza.

“Fin dall’età di undici o dodici anni, tutti sapevano già delle bande e dei territori che controllavano”, racconta Robert Garaev, giornalista nato nel 1976 a Kazan e autore del libro “Slovo patsaná” (“Слово пацана”). Il volume è un resoconto documentale degli anni Settanta-Ottanta a Kazan, quando nella capitale del Tatarstan operavano più di cento bande giovanili organizzate. 

“Patsán” in russo vuol dire “ragazzino”, ma il termine ha sempre fatto parte di un registro basso, semicriminale, indicando originariamente (negli anni Venti-Trenta del Novecento, quando iniziò ad affermarsi) il “teppistello” dodici-tredicenne di provenienza lumpenproletaria. Il termine non era molto diffuso in epoca sovietica, ma è diventato estremamente popolare dalla Perestrojka in poi, passando anche a indicare il “membro di un gruppo criminale organizzato” (giovane, ma non più giovanissimo; con un passaggio di uso anche fino ai trenta-trentacinquenni). 

Lo “Slovo patsaná” del titolo del libro indica la “parola di patsan”, ossia la “parola d’onore”, con il suo correlato di codice criminale e di omertà. A partire dal libro è stata girata anche una serie tv che sta dando scandalo in Russia: “Slova patsaná. Krov na asfalte” (“Слово пацана. Кровь на асфальте”; ossia “Parola d’onore. Sangue sull’asfalto”).

“A meno che tu non fossi un membro di una banda, era pericoloso camminare per strada, perché qualcuno cercava sempre di fermarti, di rubarti i soldi, di picchiarti”, racconta Garaev. Lui stesso è stato membro di una di queste gang all’inizio degli anni Novanta.

Le bande tenevano davvero l’intera città sotto scacco e nel terrore, e non mancavano efferati omicidi. “Molti bambini non possono nemmeno uscire per strada”, si lamenta una insegnante nel documentario del 1988 “Krik ili PTU ne s paradnogo podezda” (“Крик или ПТУ не с парадного подъезда”; ossia “Il grido o L’istituto professionale non entra dall’ingresso principale”). Questi istituti professionali (“Professionalno-Tekhnicheskoe uchilishche”, da cui la sigla PTU) erano ritenuti il brodo di coltura della violenza delle bande giovanili.

Come erano organizzate le bande di Kazan?

Una tipica “esercitazione” di una banda giovanile (fermo immagine dalla serie tv “Slovo patsana”)

La prima e più famosa banda fu la “Tjap-Ljap”, il cui nome fu scelto per assonanza a quello del quartiere della fabbrica “Teplokontrol”, dove viveva la maggior parte dei membri della gang. Uno dei componenti del gruppo, Sergej Antipov, trovò una stanza ad uso “palestra”. Come bilancieri venivano usati pesanti termosifoni di ghisa, e come sbarra per le trazioni i tubi del gas. In assenza di club, circoli, sezioni sportive, questa “palestra” era quasi l’unico posto dove gli adolescenti potevano andare la sera. Quelli che frequentavano il posto cominciarono a organizzarsi in modo particolare.

I membri del gruppo erano divisi per fasce d’età. La prima era detta “skorlupá” (“guscio”) o “shelukhá” (“buccia”), ed era composta da bambini delle prime classi di scuola, e fino ai 13 anni. Questi ragazzini potevano al massimo stare “na shukhere”, ossia “fare il palo” quando i più grandi svaligiavano negozi o bancarelle. Ma la loro funzione principale era quella di far numero ai raduni e di pagare un pizzo che finanziava il gruppo.

La seconda fascia d’età era quella dei “superá”, dai 14 ai 17 anni. Loro dovevano essere costantemente di ronda nei cortili del loro quartiere o territorio, ed erano anche impegnati nell’“educare” i più piccoli, e nell’assicurarsi che consegnassero il denaro dovuto.

L’impianto industriale “Teplokontrol” di Kazan. Questo impianto ha dato il nome alla “Tjap-Ljap”, una delle bande giovanili più violente di Kazan

Poi c’erano i “molodye” (“i giovani”), di età compresa tra i 17 e i 19 anni, che erano la principale forza combattente negli scontri, dove andavano a colpire gli avversari con mattoni, tondini, manganelli di legno e di gomma. Erano loro a effettuare i rastrellamenti, i raid punitivi e le incursioni chiamate “il buongiorno” e “la buonasera”. Lo scopo di queste incursioni era quello di cogliere di sorpresa la banda rivale, spaventarla, picchiarla duramente o addirittura “polomát” (letteralmente: “romperla”, cioè infliggere gravi danni fisici ai membri, tanto da rendere la banda impossibilitata a operare oltre).

Quindi c’erano gli “srednie” (“i mediani”), che avevano almeno 20 anni, ed erano autorizzati a recarsi nelle zone limitrofe in qualità di pacificatori con le gang rivali.

I capi della banda “Tjap-Ljap” di Kazan

Seguiva la fascia degli “starshie” (“i più vecchi”), spesso detti anche “armejtsy” (da armija; perché  avevano già prestato servizio nell’esercito). Solo loro avevano il diritto di iniziare le guerre tra bande, andare in discoteca, e controllare i punti commerciali tramite il racket

Infine, a capo di ogni banda c’erano uno o più “avtor” (abbreviazione di “avtoritét”; “autorità”), “ded” (nonno) o “korol” (re), che determinavano la politica del gruppo. Le prime due fasce di età non li conoscevano né di vista né di nome.

Le regole di comportamento in una banda

Sergej Skrjabin (1956-1994), uno dei fondatori della banda “Tjap-Ljap”, mentre si allena con un membro della gang

I membri non chiamavano certamente il loro gruppo “banda”. I termini più usati erano “motálka” (“моталка”; dal verbo motátsja, “мотаться”, che significa “ciondolare” o in senso figurato “affaccendarsi” o “vagare”, ma che nello slang giovanile significava “partecipare alla vita di strada della banda”); “kontóra” (“контора”, ossia “ufficio”) e “úlitsa” (“улица”, ossia “via”). Più spesso però alla banda ci si riferiva con il suo nome proprio.  A Kazan, negli anni Settanta e Ottanta, operavano decine, se non centinaia, di diverse “motalki”: “Zhilka”, “Sukonka”, “Khadi Taktash”, “Tjap-ljap”, “Chajniki”, “Sosnovka”, “Pentagon”, che prendevano il nome da strade, luoghi di ritrovo, segni convenzionali (i “Chajniki”, ossia “Le teiere”, ad esempio, segnavano il loro territorio appendendo dei bollitori per il tè ad alberi e recinzioni).

Per entrare in un gruppo bisognava superare la “propiska”. Ironicamente quello era il nome della “autorizzazione di residenza” in epoca sovietica, ma nelle bande di solito consisteva in un pugno fortissimo sferrato in faccia al nuovo arrivato. Se riusciva a resistere e a difendersi, veniva accettato nel gruppo. Se un ragazzo voleva unirsi al gruppo quando era già più grande e non poteva più fare tutta la trafila delle fasce d’età, di solito veniva costretto ad aggredire un passante a caso o un membro di un altro “ufficio”. A tutti i membri degli “uffici” era severamente vietato fumare, bere o fare uso di qualsiasi sostanza psicotropa. Se qualcuno veniva sorpreso con sigarette o ubriaco, non solo veniva punito, ma tutto il gruppo della sua fascia d’età veniva punito con percosse, a volte estremamente crudeli. Negli “uffici” si creava così un controllo di gruppo e una omertà che univa i teppisti e li spingeva a guardarsi le spalle a vicenda.

Era necessario andare regolarmente ai “raduni”; ogni fascia di età andava al proprio. Di solito venivano chiamati a raccolta con il passaparola dai vicini di casa, perché i membri dei gruppi vivevano negli stessi cortili e palazzi. I raduni per le fasce di età più giovani si tenevano quasi tutti i giorni, per cui gli adolescenti saltavano le lezioni: questo era nell’interesse dei leader delle bande, che traevano vantaggio dal fatto che le “i gusci” e i “giovani” fossero sprovvisti di istruzione, sempre sotto stress, e vedessero solo una strada nella vita: quella che avevano imboccato entrando nella banda.

Un giovane si allena in una palestra sovietica negli anni Ottanta

Ai “raduni” venivano spiegate ai patsaný le regole della “morale di strada”: dovevano mantenere la parola data, difendere sempre il loro cortile e il loro “ufficio”. Se i membri di un altro gruppo li fermavano per strada e chiedevano loro “Tu chi sei?” (“Ты кто?”; “Ty kto?”), il ragazzo era obbligato a dire a quale “ufficio” apparteneva, anche se si rendeva conto che sarebbe stato picchiato per questo. Mentire o nascondere l’affiliazione era un comportamento ignominioso: venivi “scacciato” (si usava il verbo “otoshít”), cioè “espulso dalla banda”, e, come minimo, prima eri picchiato duramente. Inoltre, avrebbero raccontato a tutti del tradimento e tu non ti saresti più potuto unire a nessun’altra “motalka”, il che significava che d’ora in poi sarebbe stato estremamente pericoloso per te camminare per strada.

I membri delle bande avevano anche un abbigliamento tutto loro: tute da ginnastica in estate, telogrejki e cappelli colorati in inverno. I vestiti dovevano essere comodi per affrontare le risse, e il cappello doveva essere abbastanza spesso da proteggere almeno un po’ quando si veniva colpiti alla testa da una sbarra di ferro o da un piede di porco da cantiere.

Cosa facevano i membri delle bande?

Sergej Antipov della banda Tjap-Ljap mentre solleva un manubrio

La funzione principale di tutte le fasce di età era quella di depositare denaro nella cassa comune del gruppo, detta “obshchák”. Ai più giovani veniva spiegato che questo denaro veniva raccolto per “riscaldare”, ovverosia per dare sostegno materiale ai ragazzi del gruppo che erano stati imprigionati. Spesso, però, i vertici degli “uffici” si appropriavano di questi soldi: si compravano vestiti costosi e motociclette, considerate il mezzo di trasporto d’élite dei membri delle bande.

“Volevano assomigliare alla mafia italiana. Avevano visto film stranieri a sufficienza al cinema. Da chi altro potevano voler prendere esempio?”, dice Aleksandr Raskin, giornalista e ricercatore della criminalità russa. Radif Zamaliev racconta di un suo conoscente: “Ce l’aveva con la sua banda, perché consegnava settimanalmente 3-5 rubli, ma quando finì dentro non gli arrivò nemmeno un misero pacchettino da fuori”.

I giovani malviventi di Kazan come sono rappresentati nella serie tv “Slovo patsana”

Oltre a raccogliere denaro dai più giovani, i membri della banda erano impegnati nel racket delle piccole e medie imprese di Kazan, oltre che in raid contro i commercianti del mercato.

Il 31 agosto 1978, i membri della banda Tjap-Ljap organizzarono un raid di massa nel quartiere Novo-Tatarskaja Slobodá, controllato dall’omonimo “ufficio”. Più di cinquanta adolescenti, armati di spranghe e pistole, attraversarono il quartiere, attaccando tutti indiscriminatamente. Diverse decine di persone rimasero ferite, tra cui donne e anziani, e due persone furono uccise. Tuttavia, dopo il raid, nessuno sporse denuncia alla polizia: i residenti di Kazan temevano ritorsioni da parte dei giovani malviventi.

Ma l’audace incursione portò comunque all’arresto dei capibanda. Secondo Aleksandr Raskin, furono arrestate più di 80 persone, e 30 capibanda attivi furono processati. Il capobanda Zavdat Khantimirov fu condannato a morte. Tuttavia, la soppressione della banda “Tjap-Ljap” tolse un tappo e non fece altro che stimolare una crescita ancora maggiore della criminalità di strada a Kazan.

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Perché la polizia non riusciva a contrastare le bande?

Un’unità speciale della polizia sovietica arresta un ladro di auto,1989

Garaev spiega le ragioni dell’emergere della criminalità di strada nelle città dell’Urss con l’eccesso di amnistie. I criminali che ormai avevano adottato lo stile di vita “blatnoj” (“della malavita”) tornavano nella società e portavano con sé i “ponjatija”, i “valori” criminali. La più grande amnistia del dopoguerra ebbe luogo nel 1953, e altre amnistie furono concesse in occasione del 40° (1957) e 60° (1977) anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.

La crescente urbanizzazione portò poi la popolazione di molti villaggi e frazioni di campagna del Tatarstan a riversarsi a Kazan, conservando però le abitudini di lunga data delle risse “via contro via” e “ villaggio contro villaggio”. Inoltre, alcune bande crebbero nei quartieri che erano famosi per le loro “scazzottate” già prima della Rivoluzione. Ad esempio, la popolazione delle slobodá (borgate) Sukonnaja e Staro-Tatarskaja ai tempi dello zar si davano appuntamento d’inverno per combattere sul Lago Kaban, e le loro erano erano le scazzottate più brutali dell’intera Russia.

La struttura dei gruppi assomigliava a quella delle “vatága” che organizzavano le scazzottate, con la divisione per età e il ruolo di guida dei leader. Come in quelle storiche zuffe a colpi di pugni, gli scontri tra bande avevano formalmente la regola “fino al primo sangue”, ma, come allora, spesso si andava ben oltre e le persone morivano per le percosse.

La polizia non era preparata ad affrontare le bande organizzate. Aleksandr Avvakumov, ex vice capo del dipartimento di investigazione criminale del Tatarstan, in un’intervista con il giornalista Sasha Sulim chiede: “Pensate che se fosse stato inviato un battaglione di poliziotti, sarebbe cambiato qualcosa? Beh, avrebbero condotto un’incursione, arrestato dieci persone, ma sarebbe stato impossibile accusarle di qualcosa. I leader stessi non facevano mai nulla; altri agivano per loro”. 

Inoltre, ricorda Garaev, non esisteva una base legale per arrestare i membri delle bande. Il concetto stesso di criminalità organizzata non esisteva nel Codice penale dell’Urss del 1960; è apparso solo nel nuovo Codice penale russo, adottato nel 1997. A quel tempo, nei “Selvaggi anni Novanta”, in Russia operavano già centinaia di gruppi di criminalità organizzata, eredi delle bande di strada di Kazan.

“In ogni epoca ci sono grandi formazioni criminali, e i membri di bande come la Tjap-ljap, con le loro regole di organizzazione dell’attività criminale, divennero un modello d’eccellenza per i futuri gruppi della criminalità organizzata, anche quelli degli anni Novanta”, spiega Aleksandr Raskin.

Immagine del processo a porte chiuse ai membri della banda “Tjap-Ljap”

Il “Fenomeno Kazan” non è mai stato liquidato o sradicato. I membri delle bande giovanili sono semplicemente cresciuti e si sono uniti alla criminalità “adulta” negli anni Novanta, quando il denaro non veniva più sottratto alle paghette degli scolari per strada, ma alle imprese, alle fabbriche e alle amministrazioni cittadine, e fiorivano le cosiddette “opeghé” (OPG; sigla per “Organizóvannaja prestúpnaja gruppa”; “Организованная преступная группа”; ossia “Gruppo criminale organizzato”).

Il crollo dell’Urss cambiò i valori e dette ai giovani maggiori opportunità. La palestra clandestina smise di essere l’unico posto dove andare la sera. La criminalità di strada nelle città rimase un problema serio per molti anni a venire, ma l’appartenenza a una banda non era più necessaria per gli adolescenti degli anni Novanta, neanche a Kazan.


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