Quanti sono i russi che davvero vogliono emigrare?

Dmitrij Feoktistov/TASS
Uno dei pregiudizi spesso rinfocolati dai media occidentali è che tutti vogliano andarsene dalla Russia, ma a guardare le statistiche, la realtà dei fatti è molto diversa

Nel gennaio del 1991, il “Washington Post” pubblicò un articolo allarmista, intitolato “The Russians are coming… and the West needs an immigration policy that makes sense”, in cui prefigurava una vera e propria invasione in Occidente di emigrati russi, molto superiore a quella (2 milioni di individui) avvenuta dopo la Rivoluzione d’Ottobre. In realtà, accadde il contrario: alla fine di quel 1991, quando l’Unione Sovietica cessò di esistere, la Russia postcomunista, vista come terra di nuove opportunità, accolse più immigrati di quante non fossero le persone che la lasciavano emigrando. E questo saldo positivo continua ad essere vero ancora oggi. Tuttavia, il “Washington Post” continua a perpetuare questo falso allarmismo: ha affermato nell’agosto 2019 che “un impressionante 44 per cento dei giovani russi vuole andarsene”. Davvero? Scaviamo più a fondo.

L’immagine duratura dell’esodo

Se il numero di persone che volevano lasciare l’Unione Sovietica fosse significativo come si suppone l’Occidente, ormai non lo sapremo più. Ma, come cittadina cresciuta nell’Unione Sovietica che ha dei bei ricordi della sua giovinezza, penso che sia una domanda sbagliata da porre. Certamente c’erano persone che credevano che avrebbero potuto avere più opportunità altrove. Ma la maggioranza dei sovietici non voleva andarsene per sempre, anche se, molto probabilmente, tanti avrebbero fatto volentieri un viaggio all’estero. Molti avevano questo desiderio, non tanto perché odiavano ciecamente il posto in cui si trovavano, ma perché semplicemente era vietato o difficilissimo poter ottenere un visto di uscita dal Paese. 

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Tuttavia, dobbiamo riconoscere che il fenomeno migratorio dell’Unione Sovietica era principalmente verso l’esterno. I numeri non erano eccezionali: le restrizioni all’uscita scoraggiarono le richieste, che si limitavano quasi solo ai ricongiungimenti familiari, e le opportunità di defezione erano limitate a quei pochi che erano riusciti ad andare all’estero. L’articolo allarmistico del 1991 affermava anche che le domande di visto di uscita nell’Unione Sovietica erano cresciute negli ultimi anni, a quanto pare, a causa della devastazione economica [dovuta alle riforme di liberalizzazione in corso, volute da Gorbachev]. Ma, in realtà, la maggior parte delle persone che voleva lasciare l’Urss non desiderava farlo per le condizioni economiche, neppure nel 1991.

Invece, la possibilità di viaggiare, che era aumentata grazie alle riforme della Perestrojka, era stata effettivamente colta da molti. La nostra famiglia, per esempio, fece la prima vacanza in Europa nella primavera del 1991. Abbiamo preso il treno e poi una nave, fino a Londra, e abbiamo trovato la capitale britannica piena di russi. Facevano shopping e raccontavano storie della vita nell’Urss alle feste, ma non emigravano né disertavano. Non c’era più motivo di farlo. Ed eravamo già tutti in Russia al momento del famigerato tentativo di colpo di stato dell’agosto 1991.

Chi se ne va, chi torna

Nel gennaio 1992, la nuova Russia indipendente si trasformò immediatamente in un Paese di accoglienza per migranti. La migrazione apparentemente frenetica dell’epoca coinvolse i russi etnici rimasti bloccati nelle “parti sbagliate” dell’Unione Sovietica al momento della sua caduta e divisione in 15 stati indipendenti. Era stato bruscamente annunciato che la cittadinanza russa sarebbe stata automaticamente conferita a quei cittadini sovietici che erano residenti in Russia alla data del 6 febbraio 1992; una scadenza che alcuni si affrettarono a rispettare, mentre molti altri non fecero in tempo.

Quindi, se anche la devastazione economica della caduta dell’Urss fu un fattore che giocò il suo ruolo nel desiderio di qualcuno di trasferirsi, principalmente si trattò di persone alla periferia dell’ex Unione Sovietica che cercavano una vita migliore in Russia. Questa ondata migratoria coinvolse in media 1 milione di persone tra il 1992 e il 1995, circa 500.000 all’anno tra il 1996 e il 2000, e ha continuato in seguito a un ritmo di oltre 100.000 persone all’anno, come mostrato nello studio “Nation Building and Refugee Protection in the Post-Soviet Region”. Oggi la Russia rimane la destinazione migratoria principale per i migranti economici dalle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.

All’epoca ci furono anche emigranti di ritorno: molte persone che avevano precedentemente lasciato l’Urss o ne erano state espulse, tra cui famosi scrittori. Il vincitore del Premio Nobel (nel 1970) Aleksandr Solzhenitsyn fece trionfalmente ritorno a Mosca nel 1994 e visse il resto dei suoi giorni in patria, da “patriarca” della cultura russa. Molti ebrei che erano emigrati in Israele, una volta che divenne chiaro che ora era possibile andare avanti e indietro, e soprattutto quando si diffuse internet, che permetteva di restare in contatto con i parenti, tornarono. Il ministero delle migrazioni israeliano stima che oltre 100.000 immigrati sovietici in quel Paese siano tornati a casa, mentre altre stime indicano che il numero di rimpatriati in Russia da Israele è di oltre 30.000.

C’era poi un terzo gruppo, quello dei “disertori”, che avevano rifiutato di tornare in patria una volta che si erano trovati in un Paese straniero. Molti di loro erano dei “professionisti” della critica all’Urss, e non avevano mai trovato alcun altro ruolo nei Paesi occidentali dove vivevano, se non quello di criticare il Partito comunista da lontano. Ecco che ora avevano perduto le ragioni per rimanere all’estero, una volta che il partito comunista era stato bandito nel novembre del 1991 (fu, tuttavia, ricostituito in seguito). Sì, gli anni Novanta in Russia furono “selvaggi”, ma anche straordinari. All’epoca Mosca sembrava il posto migliore dove vivere. Da allora in poi, l’emigrazione russa si è più o meno evoluta in una classe di russi globali, molti dei quali hanno mantenuto uno stretto legame con la patria.

Cosa significa “emigrare” oggi?

L’ultima puntata della serie “Esodo russo” del Washington Post fa un po’ di confusione su cosa significhi “andarsene”. Gli autori ammettono che il sottotitolo allarmista (“Il 44 percento dei giovani russi vuole andarsene”) include numeri tratti da un recente sondaggio Gallup.

Il rapporto afferma che “un nuovo massimo di uno su cinque russi (20%) ora afferma che vorrebbe lasciare la Russia se potesse”, e questo lascia molte domande senza risposta. Ecco le prime due che mi vengono in mente.

Secondo Gallup, il 17% dei russi voleva andarsene nel 2007. In questo periodo, quale percentuale lo ha fatto effettivamente senza tornare? Se si tratta di un numero trascurabile, cosa misura esattamente questo sondaggio? Gallup ipotizza che la tendenza “potrebbe accelerare il declino della popolazione [in Russia]”, prevista dalle Nazioni Unite. Ma l’Onu fa le sue previsioni sulla base delle attuali tendenze demografiche (ad es. attualmente sono più i russi che muoiono di quelli che nascono). Gli effetti dell’aumento delle persone che “potrebbero o meno voler vivere in un altro Paese per un periodo di tempo”, passate dal 17% nel 2007 al 20% nel 2018, non incidono sul previsto declino della popolazione, e non solo perché la maggior parte non vuole davvero andarsene, o vuole solo fare un’esperienza all’estero “temporanea”. Ma perché, anche se emigrassero, la Russia avrebbe comunque più immigrati che emigranti, proprio come negli ultimi 30 anni.

E poi, cosa significa esattamente “se potessero”? Cosa o chi impedisce loro di andarsene? A meno che Gallup non abbia condotto il sondaggio nelle carceri, la Russia non impedisce più alle persone di andarsene, e si è dimostrata una strategia vincente: vanno, vedono che fuori non è meglio (o peggio) e tornano a dirlo agli altri. I russi sono richiedenti relativamente a basso rischio per i visti nei Paesi occidentali e i tassi di rifiuto sono modesti. Molti vivono stagionalmente in enclave di expat, come Goa, in India, il Montenegro o la costa spagnola

Se Gallup sta parlando delle persone che vivono l’emigrazione come alternativa sognante alla loro vita reale, come ogni personaggio cinematografico di Hollywood che ha intenzione di ritirarsi su una spiaggia esotica, allora il loro numero potrebbe aumentare, perché sempre più russi un giorno potranno permettersi di farlo davvero. Ma se a bloccarli sono non la povertà estrema o uno Stato autoritario, ma lavori ben pagati, case di proprietà e una vita sociale attiva, allora il sondaggio ha poco a che spartire con la tesi che il Washington Post vuole proporre. Non si tratta, insomma, del numero di professori di Mosca che sognano di lasciare il Paese per poter lavare i cessi a Detroit.

Un numero “sbalorditivo” di giovani russi tra i 15 e i 29 anni desiderano “migrare”, afferma il Washington Post, ma non dice quali siano quali motivi. Il giornale arricchisce il suo articolo con la menzione delle manifestazioni dell’opposizione a Mosca, delle proteste contro la costruzione di una chiesa in un parco di Ekaterinburg e del dibattito sulla riforma delle pensioni, concludendo che “questi numeri illustrano la diffusa insoddisfazione in Russia per la situazione attuale del Paese”.

Affermare che le proteste per la costruzione di una chiesa o l’innalzamento dell’età pensionabile causino la fuga di quasi la metà della generazione sotto i 30 anni è ridicolo. Gallup correla negativamente il “desiderio di emigrare” con il tasso di gradimento del presidente Vladimir Putin, ma ogni studente di primo anno universitario sa che una correlazione non è causalità. Proprio come “Mi sto trasferendo in Canada” è un meme popolare tra gli americani, sappiamo tutti che le valutazioni del gradimento presidenziale non hanno praticamente nulla a che fare con l’effettiva emigrazione. La maggior parte delle persone resta e vota per qualcun altro la prossima volta.

Dopo aver fatto le sue allusioni al “regime”, il giornale statunitense riconosce però che il sondaggio in realtà analizzava i “collegamenti internazionali preesistenti” degli intervistati. In altre parole, le persone che già hanno parenti che vivono all’estero, prenderebbero più in considerazione l’idea di andare in quei Paesi. Voler essere dove sono i tuoi parenti, è esattamente l’opposto del semplice “voler andar via” (del tipo, “voler essere ovunque tranne nel posto in cui ti trovi ora”) e, a mio avviso, indica una tendenza ad acquisire esperienza di viaggio all’estero e una prospettiva più internazionale, piuttosto che l’idea di abbandonare la patria.

I “collegamenti transnazionali” nella terminologia del sondaggio erano anche le relazioni create quando il rispondente al sondaggio ha visitato, studiato o lavorato all’estero in passato. In altre parole, le persone che hanno già scelto di tornare in Russia dall’estero, sono considerate in questo pezzo di propaganda come persone che desiderano disperatamente lasciarla.

L’erba del vicino è più verde

Internet è pieno di notizie su cittadini dell’Afghanistan rurale che cercano di attraversare il confine con il vicino Tagikistan in cerca di una vita migliore. Questa “ambita” terra di opportunità, a sua volta, ha visto una grande migrazione economica verso la Russia negli ultimi anni: i cittadini tagiki a Mosca lavorano principalmente come spazzini, tassisti o operai edili, facendo “quei lavori che i russi non vogliono più fare”.

Sono nata e cresciuta a Mosca. Un giorno, durante la lunga avventura della mia immigrazione nel Regno Unito, mi sono presentata per riprendere le mie cose dall’armadietto di un deposito alla periferia di Glasgow, in Scozia. L’impiegato mi chiese: “Di dove sei?”. Ma non mi dette neanche il tempo di rispondere: “Non importa, in realtà. Sono sicuro che ovunque sia meglio che qui.” Ed ecco che, dopo aver fatto tanti sacrifici per andare nel Regno Unito, mi trovo con persone del posto che non sembrano condividere neanche un po’ il mio entusiasmo per il loro Paese.

Il punto è che cercare di migliorare le proprie condizioni è un istinto incorporato nel principio evolutivo. Come esseri umani, cerchiamo modi per migliorare qualunque cosa abbiamo, il che non dice praticamente nulla sulla qualità delle nostre condizioni attuali. Numerose persone emigrano da tutti i Paesi ogni anno, tra cui Russia, Stati Uniti e Regno Unito, tra gli altri, e, spinti da un simile desiderio di continuare a migliorare la propria vita, molti ritornano in patria. E sicuramente numeri ancora più alti ovunque sognano ad occhi aperti un posto sul mare dove andare quando saranno in pensione!

Il mondo è un turbinio infinito di migrazioni: proprio come gli animali selvatici migrano costantemente alla ricerca di nuovi pascoli, così facciamo anche noi uomini. La nostra capacità di limitare questo impulso attraverso l’autocontrollo e la razionalizzazione è ciò che ci separa dagli animali selvatici. La consapevolezza di avere l’opzione di lasciare la propria patria, che è, essenzialmente, misurata dal sondaggio Gallup in questione, non si avvicina affatto a quanto scrive il Washington Post e all’ennesima puntata della sua ormai trentennale campagna del tipo “La Russia è un posto così schifoso, che tutti non vedono l’ora di andarsene”.


L’erba del vicino non è più verde: sempre più russi emigrati scelgono di rientrare in patria 

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