Sulla strada di montagna non c’era anima viva. Ekaterina Dzalaeva stava salendo lungo la ripida serpentina per consegnare la posta in quelle remote zone dell’Ossezia Settentrionale, quando ecco un lupo a sbarrarle la strada. La Dzalaeva ha fatto appena in tempo ad arrampicarsi su un palo della luce, ben consapevole che le macchine di passaggio, a cui chiedere un aiuto, da queste parti sono una rarità.
Con alle spalle oltre mezzo secolo di lavoro alle Poste, questa donna ottantatreenne continua ogni giorno a consegnare le lettere in giro per i villaggi, in un’area di alcune decine di chilometri da casa sua. Questo le ha portato la fama, proprio ora che la sua vita, disseminata di tragedie, è al tramonto.
A lavorare alle Poste, Ekaterina Dzalaeva ci finì per caso. Non era riuscita a finire la scuola, perché dall’Inguscezia, dove studiava in nona classe, la riportarono nella natale Ossezia Settentrionale affinché aiutasse con il lavoro nei campi.
“Non avevano nessuno per falciare il fieno e l’inverno si stava avvicinando. Andai ad aiutare e feci tardi [per l’ammissione all’anno scolastico]. Cercai disperatamente di farmi prendere per fare la decima classe, ma non fui ammessa da nessuna parte”, ricorda la donna.
Quando le squadre di prospezione geologica, presso le quali Ekaterina si era fatta assumere a tempo come operaia non specializzata, lasciarono l’Ossezia Settentrionale, la giovane si rivolse a un’amica chiedendole di aiutarla a trovare un lavoro, e quella la fece prendere alle Poste.
“Quando ero piccola, tutte le persone correvano incontro al postino. Il vecchio portalettere si chiamava Dudar Basiev. Anche io correvo da lui e pensavo ‘Adesso porto ai miei genitori una lettera di mio fratello’. A volte ce n’era una e a volte no”.
L’ultima lettera del fratello arrivò nel 1942, quando lei aveva sette anni e gli invasori nazisti si avvicinavano a Stalingrado. Le poche righe se le ricorda ancora oggi a mente: “Ci portano in treno, ma dove non lo sappiamo neanche noi. Non rispondete a questa lettera. Quando arrivo a destinazione vi scriverò io”.
Il fratello è un disperso della Battaglia di Stalingrado ed Ekaterina e i suoi genitori di sue lettere non ne ricevettero mai più. Quando la donna ottantatreenne ricorda quell’ultima lettera gli occhi le si bagnano di lacrime.
Anche con il futuro marito di Ekaterina, Boris, il destino passò attraverso le lettere. Sul volto di lei si disegna la tristezza e il rimpianto per quegli anni perduti.
Quando fecero conoscenza lei aveva 36 anni e ormai da quattro consegnava le lettere ogni giorno nei villaggi collegati solo da una strada di montagna.
“Lui aveva la lingua sciolta. E miei familiari, quando lo portai a casa per il fidanzamento, dissero che era un uomo d’oro. Lui mi promise montagne d’oro e io mi vedevo già come un pascià”, e l’anziana allarga le braccia, “ma non andò bene”.
Boris era stato sei anni in carcere per le percosse all’ex moglie, e presto iniziò a tradire la nuova coniuge.
“Non appena seppi che mi tradiva, gli dissi che se intendeva continuare così, meglio che mi lasciasse in pace”. E lui se ne andò di casa, lasciando Ekaterina con una bambina di cinque mesi. Una figlia che è l’unica cosa di cui oggi Ekaterina è grata a suo marito.
L’ultima lettera da parte dell’unico uomo davvero amato, Ekaterina, che non ha avuto fortuna nella vita privata, la ricevette invece nel 1987, all’età di 51 anni.
Ruslan Bugulov, suo nipote, era l’ultimo ricordo rimasto del fratello maggiore, ucciso del villaggio natale in Ossezia. Quando il ragazzo compì 17 anni fu richiamato nell’esercito e spedito in guerra in Afghanistan.
“Io ero in buoni rapporti con il responsabile della leva, ma non mi poté aiutare in nessun modo”, si rammarica l’anziana.
Mentre la donna, con tutte le sue forze, cercava di ottenere un trasferimento per il nipote, lui fu spedito a Kabul con un gruppo di soldati sovietici.
“Al congedo gli mancavano 29 giorni. Ma dall’ultima missione non tornò”. Il suo corpo fu riportato al villaggio nel 1987.
Nel 1989 l’Unione Sovietica mise fine al suo intervento militare in Afghanistan.
La fama è giunta all’anziana portalettere quando aveva già superato i novanta, e alla tv locale hanno saputo la storia di questa donna che da più di cinquant’anni consegnava la corrispondenza in vari villaggi di montagna, facendosi a piedi circa 40 chilometri ogni giorno. Lei stessa si meraviglia di tanta attenzione.
“Quando me ne sto a casa, mi torna in mente tutto ed è dura. Quando parlo con le persone mi sento meglio”.
Qui la conoscono tutti e, o la salutano passando o si fermano con lei per fare quattro chiacchiere. “Nessuno alla sua età può lavorare come fa lei”, dice Raisa, che è originaria dello stesso villaggio. E non manca persino chi vuole farsi un selfie con “Nonna Katja”, come la chiamano qui.
In pratica, sono tutti pronti a dare un passaggio all’anziana portalettere, se la incontrano lungo la strada, ma lei ama fare il percorso a piedi, come quando era giovane.
Oggi nessuno corre più verso il postino, desideroso di qualche lettera da lungo tempo attesa. Più che altro lei consegna bollette, avvisi e giornali in abbonamento.
Vale la pena rischiare la vita per consegnare bollette in posti remoti tra le montagne, in valli dove si possono incontrare orsi, lupi e persino leopardi?
L’ultima volta che Ekaterina ha avuto un incontro ravvicinato con una bestia selvatica, l’hanno aiutata delle persone di passaggio. Ma la prossima? Lei per questo ha una sua risposta:
“Non ho paura di niente. Se muoio andrò con i miei fratelli, la mamma e il papà. Dicono che ci sia qualcosa dopo la morte. Io non ci credo, ma ho voglia di sperarci”.
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