C’è chi ritiene che l’espressione “kitájskaja grámota” (“китайская грамота”) ossia, “scrittura cinese” o “documento cinese”, derivi dal documento imperiale portato dalla Cina nel 1619 dal cosacco siberiano Ivan Petlin.
Nel 1618 Petlin guidò una missione russa a Pechino. L’incontro con l’imperatore cinese Wanli (nato Zhu Yijun), della dinastia Ming, fu negato ai cosacchi, in quanto non recavano doni ritenuti adeguati. Ciò nonostante, alla delegazione fu consegnata una lettera dell’imperatore che doveva essere recapitata allo zar Michele di Russia. Con questa lettera il sovrano cinese autorizzava i russi a visitare il suo Paese e a commerciare in territorio cinese. Inoltre, proponeva di instaurare un rapporto epistolare tra le due case regnanti.
Gli emissari dello zar russo in Cina nel XVII secolo
Niva magazine/Dominio pubblicoLa lettera fu portata a Mosca, ma per 56 anni nessuno riuscì a leggerla. Quando poi, finalmente, fu tradotta (si ritiene che il traduttore sia stato il diplomatico Nicolae Milescu), non era più attuale, perché in Cina, nel frattempo, era già salita al potere la dinastia Qing.
Fino alla metà del XVIII secolo in Russia nessuno conosceva la lingua cinese, né la lingua manciù, mentre in Cina non c’erano traduttori di lingua russa. Durante le trattative si usavano il latino o la lingua mongola, invitando per questo dei missionari occidentali, che erano presenti in Cina sin dal XVI secolo, o dei traduttori mongoli. La traduzione spesso non era corretta, tanto più che, talvolta, i traduttori dicevano delle cose che in realtà non venivano pronunciate o, al contrario, omettevano delle frasi. Anche la loro conoscenza delle lingue infatti non era perfetta. Questo dialogo con l’ausilio della “terza lingua” fu portato avanti fino alla metà del Settecento, quando la traduzione fu affidata ai monaci della missione della Chiesa russa a Pechino, aperta all’inizio del XVIII secolo.
L’uso della terza lingua aveva anche degli effetti politici negativi, perché rappresentanti di Paesi terzi erano a conoscenza degli affari che erano in corso tra Russia e Cina. Tali paesi terzi non sempre vedevano la Russia di buon occhio e quindi non erano interessati allo sviluppo dei rapporti tra i russi e la Cina.
A quanto pare, i russi non volevano affidare la traduzione agli stranieri. Siccome poi non era di urgenza vitale, l’epistola fu archiviata.
Nella pubblicistica russa l’espressione “kitajskaja gramota” fu usata per la prima volta nel 1829 da Faddej Bulgarin (1789-1859) nel suo romanzo “Ivan Vyzhigin”:
“– Vyzigin! Sono venuto da te per offrirti il posto del capo della mia cancelleria. – Scusatemi, conte! Non ho alcuna esperienza degli affari e posso più nuocere che essere utile. […] Gli affari mi sono estranei come i caratteri cinesi”.
Faddej Bulgarin (1789-1859), giornalista e scrittore polacco naturalizzato russo
Dominio pubblicoNon si può certamente escludere che lo scrittore sapesse della lettera di Wanli, scritta due secoli prima. Tuttavia, gli esperti che abbiamo interpellato, studiosi di lingua russa e di quella cinese, hanno messo in dubbio la versione, secondo cui la frase sarebbe dovuta alla lettera dell’imperatore Ming.
Secondo loro, è più verosimile che l’espressione sia nata a seguito a un calco di una frase mutuata da una lingua straniera sull’espressione russa “tarabarkaja gramota”, con la quale si indicavano lettere cifrate o incomprensibili.
In varie lingue le cose incomprensibili si associavano al cinese:
È probabile che grazie a Faddej Bulgarin l’espressione “cinese” sia stata mutuata dalla lingua francese. Nel francese l’espressione “c’est du chinois” (“questo è cinese”) è menzionata nei vocabolari dal 1790 e durante tutto il XIX secolo fu largamente usata per definire “cose poco chiare”. In Russia, l’inizio del XIX secolo fu contrassegnato da atteggiamenti francofili e tra di loro, i nobili russi parlavano e scrivevano in francese.
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È interessante anche la figura di Bulgarin. Nato nel Granducato di Lituania, nella storiografia prerivoluzionaria russa questo personaggio era indicato come polacco. All’età di 9 anni, quando ancora parlava male il russo, arrivò a San Pietroburgo per studiare. A poco più di 20 anni si recò in Polonia e si arruolò nelle truppe del Ducato di Varsavia, create da Napoleone. Partecipò alla guerra del 1812 dalla parte della Francia. Quindi, poteva usare l’espressione “scrittura cinese”, partendo dal francese o dal polacco.
Nella lingua russa già esisteva, come detto, l’espressione,“tarabarskaja gramota” per indicare il linguaggio segreto con cui venivano scritte lettere cifrate.
Un ricevimento ufficiale, forse a Pechino. Incisione tratta da “Il viaggio via terra di tre anni da Mosca alla Cina” del mercante e diplomatico danese Eberhard Isbrand Ides, pubblicato a Londra nel 1706
SSPL/Getty ImagesSecondo il Dizionario enciclopedico Brockhaus ed Efron del 1914, “tarabarskaja gramota” era un sistema di scrittura cifrata che gli slavi usavano già nel XIII secolo. In questo sistema tutte le consonanti dell’alfabeto cirillico venivano disposte su due file. Le lettere della fila inferiore erano indicate nell’ordine inverso. Per cifrare la lettera, tutte le consonanti del testo si dovevano sostituire con lettere vicine, appartenenti alla fila superiore o inferiore. Nel dizionario fraseologico di Moritz Michel’son del 1902, si legge che la “tarabarskaja gramota” veniva usata per le lettere diplomatiche già prima del XV secolo, più tardi la cominciarono a usare per le loro lettere anche i Vecchi credenti.
Quanto alla parola “gramota”, già nel primo vocabolario della lingua russa, Vocabolario dell’Accademia di Russia (1790), questa parola aveva alcuni significati, fra cui “editto del monarca”, “missiva, lettera”, “patto di pace tra due Sovrani”, ma anche “saper leggere e scrivere”.
La “kitajskaja gramota”, menzionata dal personaggio di Faddej Bulgarin, significava letteralmente “scrittura incomprensibile” e non “documento incomprensibile”. Lo stesso significato è attribuito a questa espressione anche nel dizionario di Moritz Mikhelson del 1902: “scrittura poco leggibile, incomprensibile”.
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