Come sono mostrati i russi nel film cult “Il cacciatore” di Michael Cimino?

Legion Media
Questo capolavoro di fine anni Settanta resta probabilmente la pellicola più famosa sui russo-americani, che vengono però ritratti sacrificando molto la verosimiglianza

“Il cacciatore” (“The Deer Hunter”, 1978) di Michael Cimino (1939-2016) è un film cult, vincitore di numerosissimi premi. È uno dei successi emblematici della Nuova Hollywood, un periodo della storia dell’industria cinematografica americana (dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta) in cui i registi hanno preso brevemente il sopravvento sui produttori e i film d’autore hanno ottenuto buoni risultati al botteghino. “Il cacciatore” è stato anche uno dei primi film sulla guerra del Vietnam: Cimino ha smentito con successo lo stereotipo secondo cui i film su tali argomenti non potevano interessare un vasto pubblico. Il pubblico affollò i cinema senza essere scoraggiato dalle tre ore di durata. È per “Il cacciatore” che il celebre attore Christopher Walken ha vinto il suo unico Oscar (al miglior attore non protagonista) e Meryl Streep ottenne la sua prima nomination.

La “roulette russa”

Come è nato il tema della Russia nel film? Nella versione originale della sceneggiatura, intitolata “The man who came to play”, non c’erano né russi né Vietnam. Quella versione riguardava degli americani che giocavano alla “roulette russa” a Las Vegas. Il colpo di scena venne dal regista Michael Cimino, coautore della versione finale. La “roulette russa” divenne la metafora dell’avventura militare in Vietnam, e la nazionalità dei personaggi venne chiaramente suggerita dal gioco mortale stesso.

“Il cacciatore” è un film che parla, tra l’altro, del “melting pot” della società americana. Persone provenienti dall’Impero russo, cresciute con i valori americani, vanno a combattere i comunisti in Vietnam. Il primo terzo del film mostra in dettaglio la convivenza della diaspora russa in Pennsylvania, ed è per questo che la loro canzone “God Bless America” suona così struggente nel finale. In realtà, Cimino dovette in gran parte inventarsi lo stile di vita e i costumi della diaspora russa. Sia il regista che gli attori principali trascorsero una sola settimana immersi nella realtà dei protagonisti del loro futuro film: girarono in auto per la campagna e si “imbucarono” a un vero matrimonio russo. Ma questo viaggio avvenne soltanto alla fine del periodo preparatorio, quando la sceneggiatura era già stata scritta da tempo.

Cimino era italo-americano e avrebbe probabilmente potuto ritrarre la comunità italo-americana in modo molto più realistico. Tuttavia, Francis Ford Coppola aveva allora già diretto le due parti de “Il padrino” (uscite nel 1972 e 1974), e la saga dei mafiosi aveva stabilito un nuovo punto di riferimento nella rappresentazione degli italo-americani. Inoltre, “Il cacciatore” era drammaturgicamente simile al primo episodio de “Il Padrino”: anch’esso tratta del melting pot americano nel contesto della guerra (anche se della Seconda Guerra Mondiale) e i rituali familiari giocano un ruolo enorme nella trama. In particolare, sia Cimino che Coppola iniziano i loro film con una lunga scena a un matrimonio. Infine, il regista aveva scritturato Robert De Niro nel ruolo del cacciatore di cervi Mike Vronskij, e De Niro aveva da poco interpretato il giovane Vito Corleone ne “Il padrino - Parte II”.

Grazie al tema russo, Cimino riuscì a distanziarsi il più possibile dal film di Coppola e a evitare inutili paragoni.

“Katjusha” a un matrimonio

Qui l’eclettismo regna sovrano. Prendete i nomi dei personaggi principali. Quello interpretato da Robert De Niro deve chiaramente il suo cognome a Lev Tolstoj e ad “Anna Karenina”, e suona piuttosto polacco. Il cognome ucraino-bielorusso del personaggio di Christopher Walken: Nika (Nicanor) Chebotarevich viene pronunciato con un evidente errore: Chevotarevich. Stanley, l’ultimo ruolo interpretato dall’attore John Casale, viene chiamato Stosh dai suoi amici, alla polacca. I personaggi parlano un misto di lingue slave e fanno il tipico brindisi “Na zdrowie!” tipicamente spacciato per russo nel cinema hollywoodiano. Il matrimonio dei Pushkov, con Steven (John Savage) e Andzhela (Rutanya Alda) è stato girato nella Cattedrale di San Teodosio e nella Lemko Hall di Cleveland, dove vivono molti ruteni dei Carpazi. Furono utilizzati in gran numero anche come comparse nelle scene di massa.

Una curiosità a parte è la scelta della musica. Ad esempio, i partecipanti si cimentano in una danza che ricorda il tradizionale “Kazachok” su un brano non molto scontato: la romanza “Trojka” del compositore dell’epoca zarista russa Pjotr Bulakhov. E alla fine della serata tutti intonano in coro “Katjusha”. Ma si tratta di una canzone popolare sovietica che gli emigrati di quegli anni difficilmente avrebbero potuto conoscere e cantare (l’azione si svolge alla fine degli anni Sessanta, il che significa che i personaggi sono arrivati negli Stati Uniti prima o subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, oppure sono i loro figli). La scelta è stravagante, anche se abbastanza appropriata alla trama. Katjusha si strugge per il suo amato, che si trova da qualche parte “in una lontana terra di confine… a difendere la sua terra natale”. Così è qui: la festa di nozze è anche una festa di addio: lo sposo e i suoi due amici devono partire per il Vietnam a breve.

È indicativo anche il fatto che di tutti gli attori che svolgono parti importanti nella trama, solo due abbiano legami con il territorio che fu parte dell’ex Impero russo, e nemmeno hanno ruoli di primo piano. Si tratta della lettone Rutanya Alda (moglie di Steven) e di George Dzundza (un amico dei protagonisti), nato in Germainia nel 1945, ma figlio di Ostarbeiter, un ucraino e una polacca, che erano stati deportati in Germania dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale per lavorare in fabbrica.

È giusto dire che l’eclettismo del film sembra in parte realistico. Ad esempio, assistiamo senza farci troppo caso a una cerimonia di matrimonio ortodossa, ma tutti, compreso il sacerdote, parlano inglese, e ci sono dei barattoli di latta legati all’auto degli sposi, cosa del tutto americana. Nel complesso, è chiaro che Cimino non mirava all’accuratezza storica: stava girando una parabola più che un dramma, quindi in nome della verità artistica ha sacrificato la verosimiglianza. E non solo nelle scene “russe”.

La prima de “Il cacciatore” al Festival di Berlino si concluse con uno scandalo: la delegazione sovietica abbandonò la proiezione per protesta. Tuttavia, non per le “kljukva”, come vengono chiamate le falsità piene di stereotipi sulla Russia, ma per la demonizzazione dei comunisti vietnamiti.


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