“Tradurre significa conoscere un testo da dentro; e spesso lo si conosce per davvero solo quando lo si traduce”. Parola di Alessandro Niero, traduttore, professore di Letteratura russa all’Università di Bologna, che cura per l’editore Passigli la serie “Russia Poetica”.
Niero, insignito di premi nazionali e internazionali, sarà uno degli ospiti dell’evento online dedicato all’antologia di versi di Evgenij Solonovich, “In mani fidate. Poesie 1981-2020”, organizzato da Russia Beyond e Istituto di Cultura e Lingua russa di Roma (diretta Facebook il 18 maggio alle 17:30; tutte le info qui). Grande maestro dell’arte del tradurre, profondo conoscitore delle tendenze letterarie che arrivano dall’est, Niero ci offre un commento dei versi di Solonovich (il più grande italianista russo, traduttore di Dante, Petrarca e Belli, solo per citarne alcuni) e ci svela cosa si potrebbe fare per diffondere maggiormente gli autori russi tra il pubblico italiano.
Professore, lei sarà fra gli ospiti dell’evento online del 18 maggio dedicato al libro di Evgenij Solonovič “In mani fidate. Poesie 1981-2020”. Può darci un breve commento su questa raccolta di poesie scritte dal maggior italianista russo?
Dovrebbe essere una lietissima sorpresa, intanto, per il lettore italiano. È un libro che possiede una straniata maturità, quella di un grandissimo traduttore che scrive con tutto il talento di chi padroneggia l’idioma poetico, ma senza che si avvertano le “scorie” dell’immenso lavoro di traghettamento dall’italiano al russo fatto nei decenni. Correndo sul filo della memoria, “In mani fidate” contiene pezzi struggenti come “Il biglietto di ritorno” o “Traducendo Montale”, dove si parla di traduzione facendo poesia (e non viceversa). E poi ci sono versi su situazioni paradigmatiche, emblematiche, dove ognuno di noi si può riconoscere (penso a “Il suggeritore è in malattia…”): insomma, una miscela sapiente di vicende private (ma non incondivisibili) e di circostanze sovrapersonali. Mi piace mettere in rilievo anche il coro delle traduttrici (Caterina Graziadei, Claudia Scandura, Bianca Maria Balestra), tutte riconoscibili nella loro specificità, ma non tanto da spezzare la magia di un concorde ensamble.
Lei, come molti suoi colleghi, ha un ruolo fondamentale nella diffusione della letteratura e della poesia russa in Italia: fra le varie cose, cura la serie “Russia Poetica” per l’editore Passigli. Come vengono selezionati gli autori e le opere che si sceglie di far conoscere al pubblico italiano? Quali criteri prevalgono?
Sorvolo sul “fondamentale”: in realtà siamo in molti a muoverci nella stessa direzione, anche se seguendo strade diverse (penso alla collana “I Poeti della Fondazione Brodskij”, curata da Piera Mattei, ma nella quale ha un ruolo di punta Claudia Scandura). Per quanto riguarda “Russia Poetica”, l’idea era di riempire qualche lacuna nella percezione della poesia russa del secondo Novecento da parte del lettore italiano non specialista che, a mio avviso, è ancora fondamentalmente chiuso nella diade Iosif Brodskij – Evgenij Evtušenko. Con l’uscita dei libri “monografici” di Boris Sluckij e Sergej Stratanovskij (da me curati), Viktor Krivulin (curato da Marco Sabbatini), Sergej Gandlevskij (curato da Elisa Baglioni) e Aleksandr Kušner (curato da Marilena Rea) si spera di aver arricchito il panorama, veicolandolo nel prezioso contenitore di una collana voluta nel 1989 da Mario Luzi. Gli autori vengono principalmente scelti da me e proposti a Fabrizio Dall’Aglio (uno dei responsabili editoriali di Passigli), con il quale concordiamo le scelte editoriali. Ora, come forse era prevedibile, cominciano ad arrivare proposte anche dall’esterno e non è detto che non ci si sposti, con qualche cautela, anche sul contemporaneo.
Il pubblico italiano conosce soprattutto gli autori classici russi, e meno gli scrittori contemporanei: escludendo i grandi classici, quali libri suggerirebbe di leggere ai nostri lettori?
Confesso di avere qualche difficoltà ad addentrarmi, per esempio, nella prosa contemporanea, ma un libro come “Il confine dell’oblio” di Sergej Lebedev mi ha davvero colpito al cuore, così come mi ha lasciato incantato la prosa di Marina Stepnova. Quanto alla poesia, penso al gran lavoro di dissodamento del terreno fatto da Massimo Maurizio e Paolo Galvagni e alle voci nuove che mettono a disposizione del lettore. Farei il nome di Sergej Timofeev, almeno. Ma so di essere ingeneroso.
Cosa si potrebbe fare per valorizzare e diffondere maggiormente quel tipo di produzione letteraria meno “mainstream”?
Non ho soluzioni serie da offrire. Se per “mainstream” si intendono i classici, intanto mi preoccuperei di non perdere i lettori del “mainstream”. Poi, forse, bisognerebbe dare più spazio alla letteratura russa sui mezzi di comunicazione, diversificandoli il più possibile (video, clips, presentazioni, testimonianze) in modo da togliere definitivamente quella patina di esotico che ancora la ammanta e che, a lungo andare, può diventare un limite. In realtà non sto rispondendo affatto e mi rendo conto che ci si deve affidare, alla fin fine, alla curiosità dello zoccolo duro dei lettori… o a qualche personaggio di spicco – qualche acuto testimonial – che si preoccupi intelligentemente di perorare la causa della letteratura russa meno nota.
Lei si occupa da anni di traduzione: quale autore russo le ha causato maggiori difficoltà in fase di traduzione e perché?
Ogni autore è, a suo modo, croce e delizia del traduttore. Afanasij Fet (“Arduo è restituire la bellezza viva…”, uscito nel 2012 per Ariele Edizioni) è un autore che, per squisitezza musicale, talvolta induce allo scoramento perché non facilmente raggiungibile su questo piano (Fet, tra l’altro, spinge a essere lirici e un poco demodé anche senza volerlo). Per quanto riguarda Dmitrij Prigov (“Oltre la poesia”, Marsilio 2014), l’impossibilità di agganciare con immediatezza il lettore italiano alla serie di citazioni che costellano i suoi testi, diventa un rammarico poco sanabile (abbondano, pertanto, le note o le spiegazioni in sede di introduzione). Vi sono poi i casi in cui il volume viene commissionato e non c’è possibilità di scegliere i testi da tradurre, per cui ogni tanto ci si trova a dover far funzionare più la professionalità che l’empatia con il testo. Ma un traduttore deve mettere in cantiere anche questo. A volte, anche in casi del genere, l’empatia si innesca in una fase successiva – tradurre è conoscere un testo da dentro e spesso lo si conosce per davvero solo quando lo si traduce – e diventa quasi innamoramento, (vedi il volume di Irina Ermakova “Ninna-nanna per Odisseo”, uscito nel 2008 per Interlinea). Devo dire, comunque, che preferisco ricordare le cose che mi appaiono riuscite più che quelle che mi hanno messo in difficoltà. E non si tratta di un quadro statico: a distanza di tempo, il traduttore rigoroso è sempre più scontento di sé (così, almeno, accade a me) e salva dall’oblio sempre meno. Ma di quel che rimane va smisuratamente fiero.
Nel tradurre opere complesse e difficilmente trasponibili fedelmente, prevale più la frustrazione o l’entusiasmo della sfida? Com’è la catarsi creativa del traduttore?
Direi che, a tutt’oggi, per quanto mi riguarda prevale l’entusiasmo della sfida. Sono – come dicevo – più incline a puntare lo sguardo su ciò che mi sembra si possa fare anziché privilegiare ciò che, quasi inevitabilmente, va perso. Non è un gioco al ribasso: è un concentrarsi sul tendere invece che sul conseguire (o meglio: sul tendere per conseguire), che psicologicamente aiuta e che dà comunque il senso di una sorta di pre-risultato plausibile e incoraggiante.
Quanto alla catarsi, se mai si verifica, è quando si ha la certezza che quel determinato verso, quel giro di parole, quella modulazione sintattica siano i migliori possibili e i più vicini all’idea dell’originale che ci si è fatti. In quel momento si ha davvero la sensazione di aver “creato” quasi in autonomia, sebbene non sia così: se c’è una sorta di ispirazione, questa è quasi sempre “indotta”.
Lei si è occupato a lungo dello studio e della traduzione delle opere di Iosif Brodskij; e da veneto, immagino che non possa fare a meno di pensare a lui e alle sue “Fondamenta degli incurabili” tutte le volte che mette piede a Venezia. È così? C’è qualche angolo della città che più di altri le ricorda Brodskij?
“Fondamenta degli incurabili” è sicuramente un testo capace di suggestionare chiunque metta piede nella città lagunare. Credo che in molti, d’inverno, abbiano mobilitato l’olfatto più del dovuto, uscendo dalla stazione Santa Lucia, in cerca dell’odore “di alghe marine sotto zero” che campeggia nel secondo “pezzo” di questa peculiare prosa brodskiana (e vorrei ricordare che, inopinatamente, ne è stato tratto un profumo, “The Essence of Venice. Freezing Seaweed Fragrance”). Non avendo conosciuto Brodskij di persona, conservo un bel ricordo di quando – nel 2016 – fu appesa una targa con un profilo del poeta alla Fondamenta delle Zattere. Abitando al Lido di Venezia, devo dire che sono affezionato a una poesia non fra le più note (non c’è nel volume “Poesie italiane” del 1996), intitolata, appunto, “Lido”. E forse ho anche identificato il punto in cui, probabilmente, Brodskij ha avuto le prime impressioni che lo hanno portato a scriverla.
Lei insegna Letteratura russa all’Università di Bologna. Cosa “cercano” i giovani italiani che si avvicinano allo studio della letteratura e della lingua russa?
La percentuale di coloro che scelgono davvero il russo per il tandem “lingua e letteratura” (non penso, infatti, che ciò valga per tutti), credo che fondamentalmente lo faccia per dotarsi di un approccio meno ingenuo e più meditato e stratificato ai classici: Dostoevskij, Tolstoj, Čechov, Bulgakov (forse Zamjatin, ma qui sono un po’ di parte avendo tradotto “Noi”). In un certo senso, con questi autori, è relativamente agevole attirare l’attenzione dello studente. Più complesso – e avvincente – è rendere accattivanti scrittori che la ricezione spicciola della letteratura russa in Italia non consegna in primissima istanza: mi riferisco a prosatori come Andrej Belyj, Fëdor Sologub, Jurij Oleša, Andrej Platonov, Boris Pil’njak, Maksim Gor’kij, perfino Isaak Babel’. Per non parlare della poesia, ovviamente, la cui bellezza è problematico trasmettere. Anche se, in verità, i nomi di Vladimir Majakovskij, Anna Achmatova e Osip Mandel’štam hanno ormai diritto di cittadinanza anche nell’immaginario dei più giovani. Per il secondo Novecento, la cosa si fa più ardua, naturalmente, ma non così tanto da dissuadermi dal provare.
LEGGI ANCHE: Marco Caratozzolo dell’Università di Bari : “Vi racconto quel genio di Dostoevskij che anticipò Freud e credeva nel riscatto delle persone”