Tra gli anni ‘50 e ‘60 più di 100 italiani si laurearono in Unione Sovietica: ragazzi e ragazze che ebbero la possibilità unica di immergersi in un mondo estraneo, pressoché sconosciuto al di qua della cortina, dove i pochi stranieri di norma ammessi (diplomatici, giornalisti e rappresentanti di grandi imprese) alloggiavano in edifici riservati, vivendo una quotidianità ben diversa da quella dei comuni cittadini sovietici. Per questo le testimonianze di quegli studenti sono ancora oggi preziose per conoscere una realtà così lontana e spesso mistificata.
Fra quei ragazzi, all’epoca poco più che ventenni, c’era anche Carlo Fredduzzi, oggi direttore dell’Istituto di Cultura e Lingua russa di Roma, traduttore e giornalista, approdato nel 1962 in URSS con una borsa di studio del Partito Comunista. Per cinque anni ha studiato all’Università Zhdanov di Leningrado (oggi San Pietroburgo), e le sue avventure sovietiche sono state raccolte in un libro da poco pubblicato da Sandro Teti Editore: “Ragazzi di Leningrado. Memorie di uno studente italiano in URSS” (pagg. 160, euro 15).
Attraverso i corridoi dell’università, le camere sudicie dello studentato e le vie coperte di neve di quella città "al limite del Circolo polare artico", Fredduzzi racconta le pieghe di una realtà ormai scomparsa, ma che ci aiuta a capire anche molti aspetti della Russia moderna.
In piena guerra fredda, quindi, Fredduzzi supera la cortina di ferro in una notte d’agosto a bordo di un treno partito dalla stazione Termini di Roma che, dopo un lungo viaggio, approda in una Mosca illuminata dalla fioca luce del mattino. Il primo impatto con la capitale sovietica è scandito dall’ordine, dalla pulizia e dall’andatura dei passanti che sembrano “quasi non calpestare la pavimentazione” dell’immensa Piazza Rossa, “ma accarezzarla amorevolmente come il manto di un animale amato”.
Dopo le peripezie iniziali, Fredduzzi e i suoi compagni si tuffano nella vita sovietica, quella vera, lontana da Roma e dalle comodità di casa. L’impatto con la lingua (“uno scioglilingua inestricabile fatto di suoni gutturali e sibilanti”), il muro della burocrazia, le attese interminabili per telefonare in Italia, le feste (vecherinke) nelle camere dello studentato e gli incontri sorprendenti con i grandi personaggi dell’epoca (Anna Akhmatova e Iosif Brodskij), accompagnano il lettore in un viaggio nel tempo dai tratti nostalgici ma carichi di gratitudine verso un’esperienza che avrebbe segnato l’autore per il resto della sua vita. Dopo la laurea nel 1967, infatti, Fredduzzi lavora per la TASS, diviene segretario dell’Associazione Italia-URSS di Roma e nel 1991 fonda l’Istituto di Cultura e Lingua russa.
Le sue avventure rocambolesche narrate con semplicità e spontaneità sono anche l’occasione per tratteggiare il carattere di un popolo (forse non così lontano da noi occidentali), l’organizzazione del sistema sociale, familiare e universitario, ma anche l’universo femminile sovietico degli anni ‘60, straordinariamente emancipato e disinibito rispetto alla realtà italiana dello stesso periodo.
Il volume, accompagnato da foto d’epoca che permettono di calarsi nell’intimità delle kommunalki (appartamenti comunitari) e degli obschezhitie (studentati), è una testimonianza più che mai preziosa di un’epoca che fu; e, come giustamente fa notare l’editore Sandro Teti, racconta una pagina ancora ignorata nella storia dei rapporti italo-russi: quella degli oltre 100 studenti che conseguirono la laurea in un paese ermetico come l’Unione Sovietica.
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