I cinque poeti russi dalla vita più tragica e sofferta

Orest Kiprenskij/Galleria Tretjakov; Petr Zabolotskij/Galleria Tretjakov; Getty Images; Global Look Press; Pixabay
Si ritiene spesso che solo provando dolore si possa scrivere dei versi bellissimi ed eterni. Questi artisti ne hanno sperimentato davvero tanto, nelle loro brevi e intensissime esistenze

Aleksandr Pushkin (1799-1837)

Non si può certo dire che al grande poeta russo mancasse qualcosa nella vita. Tuttavia, gli sembrava, ovviamente, che il destino e la gente fossero crudelmente ingiusti nei suoi confronti e che avesse molte ragioni per soffrire. Prima fu un bambino che si sentiva non amato in famiglia, poi, in gioventù, si preoccupò del domani della Russia e scrisse poesie dal pensiero troppo liberale e che toccavano temi scabrosi, per le quali fu mandato al confino prima al Sud, in Moldavia e a Odessa, e poi nella sua tenuta di famiglia nella regione di Pskov (730 km a nordovest di Mosca).

Anche lì soffrì per una moltitudine di cause: per l’amore infelice, la lontananza dagli amici e dalla capitale… Soffrì per il non poter prendere parte alla rivolta contro il monarca, e poi perché chi vi aveva preso parte era stato giustiziato o mandato in esilio.

Quindi iniziò a preoccuparsi di non poter trovare una buona moglie a causa dei debiti e del rango  nobiliare basso in modo umiliante che gli era stato dato. Ma una volta sposato con una donna bellissima, fu tormentato dalla gelosia. E la vera tragedia lo raggiunse quando sfidò il presunto amante di sua moglie a duello, fu ferito a morte e, pianto da tutta la Russia illuminata, morì dopo tre giorni di agonia all’età di 37 anni.

Mikhail Lermontov (1814-1841)

Si può dire che Lermontov abbia raccolto il testimone della “tragicità” dallo stesso Pushkin, perché divenne famoso proprio per i versi scritti sulla morte del poeta. In essi, Lermontov esprime tutta la tragedia della vita e della morte del grande poeta e incolpa coloro che, secondo lui, ne erano i responsabili. Cosa che gli costò l’espulsione dalla Guardia e il distaccamento nel Caucaso.

Lo stesso Lermontov era un eroe ancora più romantico di Pushkin. Orfano allevato da sua nonna, fin da piccolo fu in contrasto con il resto del mondo, provando un senso di acuta ingiustizia nei suoi confronti e si sentì un emarginato. Era preoccupato per la censura e la polizia segreta, che odiava. Credeva che quelle persone in uniforme fossero traditori della Russia.

Naturalmente, anche le sue sofferenze principali furono associate all’amore. Lermontov non era molto attraente e aveva un caratteraccio, quindi il suo rapporto con il sesso opposto non gli regalava molte soddisfazioni. Di solito la sua condizione era di desiderio e disperazione. Nella società, si comportava come un vero misantropo e, alla fine, pagò per la sua lingua tagliente. Offese il suo conoscente Nikolaj Martynov, in compagnia di una donna, questi lo sfidò a duello, e gli sparò al petto uccidendolo. Lermontov aveva solo 27 anni.

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Sergej Esenin (1895-1925)

Leggendo i versi penetranti del poeta-teppista (come si definiva lui stesso), ci si rende presto conto di come abbia bruciato la sua vita e di quanto colma di passione fosse la sua natura. E appare naturale che soffrisse a causa di tutto. Si innamorava in fretta della donne, ma velocemente se ne annoiava, lasciandole. I paesaggi della sua terra natale, i villaggi rurali e il fiume Okà, che aveva lasciato per la capitale, gli causavano le lacrime per la nostalgia e per i vecchi genitori rimasti soli.

Cominciò a bere molto e a fare una vita estremamente dissoluta, e le autorità si preoccuparono seriamente della sua salute mentale e lo misero sotto sorveglianza. Quindi, la sua sofferenza crebbe fino a un punto critico. Esenin notò che dietro di lui camminava un’ombra, ma nell’intossicazione alcolica non riusciva più a capire se si trattasse di un agente dell’Nkvd, la polizia segreta, o del suo lato “oscuro”. Questi tormenti si riflettono nel poema “L’uomo nero”. Nel 1925, il poeta fu trovato impiccato in una camera dell’albergo Angleterre a San Pietroburgo, e sulla sua scrivania c’era una poesia scritta con il sangue. Le ultime parole erano: “In questa vita, morire non è una novità,/ ma, di certo, nemmeno vivere lo è”.

Secondo la versione ufficiale si trattò di suicidio, ma si discute ancora della possibilità che sia stato ucciso dagli ufficiali dell’Nkvd e che il suicidio sia stato inscenato. Nella sua stanza, oggetti e mobili erano in disordine e sulla faccia del poeta c’erano graffi e contusioni sospette.

Vladimir Majakovskij (1893-1930)

Nei primi anni sovietici, i suicidi non erano rari tra gli artisti. Le nature creative non potevano sopportare il crollo dei loro ideali rivoluzionari, quando divenne chiaro che invece di una nuova vita libera erano arrivate la dittatura, l’Nkvd, la censura e le esecuzioni.

Tra questi ci fu Majakovskij. Oltre alla questione politica, era in un triangolo amoroso con Lilja e Osip Brik e soffriva di una vita personale instabile. Lilja è stata persino considerata una strega da chi riteneva che avesse portato il poeta allo stremo. La ragazza aveva una natura esuberante ed esigente (e visse poi fino a 86 anni). Si diceva che Lilja si approfittasse della fama di Majakovskij: lui nelle lettere le confessava il suo amore e le dedicava poesie piene di patimenti, ed era chiaro che la sua anima era straziata, ma Lilja gli chiedeva solo soldi.

Nel 1930, al culmine della fama, lo scrittore proletario si sparò nel suo appartamento, proprio di fronte all’edificio dell’Nkvd, su piazza della Lubjanka. Ora vi sorge il Museo Majakovskij. In un biglietto lasciato, chiedeva di non incolpare nessuno e lasciava l’archivio come eredità per la coppia Brik. Tuttavia, c’è chi crede che anche Majakovskij sia stato ucciso dall’Nkvd, e individua l’esecutore dell’omicidio in Veronika Polonskaja: il poeta aveva in programmato un incontro con lei, e fu lei a trovarlo morto.

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Osip Maldelshtam (1891-1938)

Essendo originario di una ricca famiglia ebraica, Osip soffriva terribilmente della sua rovina finanziaria, e anche non poco per i pregiudizi nei confronti degli ebrei diffusi nella società russa. Fu persino costretto a convertirsi al cristianesimo metodista, nel 1911, in Finlandia (allora parte dell’Impero Russo), per poter studiare in un’università russa (i suoi genitori non avevano più soldi per la sua istruzione in Europa, dove aveva iniziato gli studi; prima alla Sorbona di Parigi e poi ad Heidelberg, in Germania).

Mandelshtam non era bello, con grandi orecchie a sventola e un naso pronunciato, ma dentro era un vero eroe romantico e un grande ammiratore dell’antichità classica. La discrepanza tra aspetto fisico e ricchezza del suo mondo interiore, così come il sentirsi ridicolo di fronte agli altri, gli procurò sempre molto dolore.

Una sofferenza più grave lo raggiunse quando, essendo già un famoso poeta, cadde in un periodo di totale oblio ai tempi di Stalin. Le sue poesie “decadenti” non si adattavano alla censura sovietica; le sue opere non patriottiche cessarono di essere stampate, il che fu come morire per il poeta. Inoltre, rimase senza soldi e fu costretto a rimediare modesti guadagni come traduttore.

Disperato, commise un errore fatale nel 1933, scrivendo un brillante epigramma antistalinista, “Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese” in cui definiva Stalin “il montanaro del Cremlino” (alludendo alla una scarsa istruzione) e diffondendolo tra i suoi conoscenti. In un primo momento questo gli costò solo il confino a Voronezh (dove sua moglie, Nadezhda Jakovlevna, lo salvò dal suicidio).

Ma al culmine delle repressioni nel 1938, si ricordarono di lui, lo accusano di agitazione antisovietica e lo condannarono a 5 anni nel Gulag per i suoi versi “osceni e calunniosi”. E Mandelshtam, completamente inadatto alla vita, debole di salute, morì in un campo di smistamento in Estremo, Oriente, secondo la versione ufficiale “di tifo”.

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